sabato 29 agosto 2009

14. Il buon governo

Chiudo questa sezione chiedendomi quale sia l’ideale del buon governo per la DD e la DR, anticipando e introducendo così quanto verrò a dire nelle successive due sezioni.

14.1. Il buon governo DD
La DD non propone un modello politico prestabilito, ma si limita a concentrare tutti i suoi sforzi nel creare buoni cittadini, convinta che i buoni cittadini daranno vita ad un buon governo e che il buon governo si potrà riconoscere e valutare misurando “in che modo esso tenda ad aumentare tra i cittadini le buone qualità” (MILL 1997a: 29). Il buon governo DD è, dunque, l’autogoverno del popolo che si realizza coi buoni cittadini. In esso sono presenti al massimo grado quei fattori (primi fra tutti la scuola, l’informazione e il diritto al Minimo), da cui dipende la formazione e la libertà dei cittadini, e al minimo grado quelli che annullano o schiacciano le persone, come i mastodontici apparati burocratici, dove si fa difficoltà ad individuare i responsabili degli atti e dove il cittadino comune può districarsi solo con l’aiuto di esperti, o i partiti, che chiedono ai cittadini di delegare il loro potere.

14.2. Il buon governo DR
Il buon governo DR ruota attorno ad un apparato burocratico e istituzionale ipertrofico e complesso (parlamento, partiti, sindacati, enti locali, imprese, associazioni, comunità, chiese, aziende, famiglie), ma non alle singole persone.

13. Il Costituzionalismo

Nel XVII secolo in Inghilterra i sudditi riescono ad ottenere “il primo governo parlamentare della storia sulla base dell’esplicito riconoscimento che l’esercizio del potere di coercizione dello Stato doveva essere regolato da leggi scritte, e che queste dovevano contemplare la tutela della vita, della persona e della proprietà dei governati. Tuttavia, si dovrà attendere la guerra di indipendenza delle colonie americane per avere la prima «Dichiarazione dei diritti del cittadino» che fu quella della Virginia (1776), nella quale era contemplato anche il rivoluzionario diritto di «riformare, mutare o abolire» il governo qualora questo, a insindacabile giudizio del popolo, fosse risultato oppressivo” (PELLICANI 1998b: 790). Per la prima volta, anche il re era soggetto alla legge, mentre le leggi erano soggette alla costituzione. Ecco che nasceva il cosiddetto Stato di diritto. Anche questo era, dunque, il prodotto di rapporti di forza fra dominanti e dominati.
“La costituzione sono esattamente i valori, i diritti, i principi sulla cui base una comunità decide di ordinare la propria convivenza pacifica” (BALDASSARRE 2002: 21). L’idea che sta alla base del c. è che dev’esserci una norma generale superiore a tutti gli altri poteri dello Stato e tale da poter garantire il singolo cittadino perfino dinanzi al re. In estrema sintesi, la c. rappresenta il punto d’incontro di due princìpi, quello della sovranità popolare e quello dei diritti dell’individuo, in virtù dei quali “la onnipotenza della legge, che pur rispecchia la volontà della maggioranza dei cittadini, deve arrestarsi di fronte a certe libertà civili e politiche, che sono riconosciute a tutti i cittadini anche se appartenenti alla minoranza, e che costituiscono intorno a ciascuno di essi una specie di fortilizio individuale, di cui lo stato costituzionale si impegna in anticipo a non tentare l’espugnazione” (Calamandrei 1995: 19). Si tratta, in sostanza, di definire alcuni princìpi generali e porli al di sopra di ogni altro potere. Secondo Nicola Matteucci, il c. è “quella tecnica giuridica attraverso la quale ai cittadini viene assicurato l’esercizio dei loro diritti individuali e, nel contempo, lo Stato è posto nelle condizioni di non poterli violare” (1992: 523).
La costituzione è elaborata da un’Assemblea costituente appositamente designata su mandato popolare. Dunque, essa non costituisce un “atto di governo, ma l’atto di un popolo che crea un governo” (in MATTEUCCI 1992: 526). Una volta stesa, la costituzione dev’essere ratificata con un referendum popolare. Quindi si affida alla Corte costituzionale il compito di farla rispettare. La prima costituzione scritta è stata quella della Virginia (1776).

13.1. La Costituzione nella storia
Le prime costituzioni si limitavano essenzialmente a definire l’organizzazione del potere, mentre, era riportata a parte una Dichiarazione dei diritti, che di solito si ispiravano al giusnaturalismo, il che significa che era discrezionale per il sovrano il riconoscimento dei diritti dei sudditi e, in ogni caso, questi non avevano alcun potere giurisdizionale di farli valere. Nelle c. più recenti “questa visione si rovescia. Prima si stabiliscono i valori e i principi di dignità umana; poi, si stabilisce che il potere deve rispettare e perseguire quei diritti e quei valori” (BALDASSARRE 2002: 20-1). Più precisamente, nella prima parte si enunciano i principi, nella seconda si illustra l’organizzazione del potere. Il risultato è comunque sovrapponibile. In entrambi i casi, infatti, la costituzione svolge la funzione di trasformare i diritti naturali in leggi positive dello Stato e di porle al di sopra dello stesso sovrano. Per di più, la costituzione divide il potere politico in tre aree indipendenti o poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), e tutto ciò allo scopo di garantire l’effettivo esercizio dei diritti dei cittadini.

13.2. Il Costituzionalismo e la democrazia
Uno Stato si riconosce dalla sua Costituzione (non importa che sia scritta o meno), non solo in ordine ai princìpi cui si ispirano le sue leggi, ma anche da come questi princìpi vengono attuati nella pratica. Ed è proprio qui il nodo della questione che voglio sollevare: i princìpi costituzionali accomunano DR e DD. Dunque, la teoria democratica è una. Quello che cambia è il modo di attuarla.

13.3. Il Costituzionalismo DD
Il c. DD esprime princìpi analoghi a quelli affermati dal c. DR. In particolare, essa afferma che “la persona è valore supremo in quanto tale” (BALDASSARRE 2002: 52) e che è la costituzione a legittimare lo Stato e non lo Stato a legittimare la costituzione. “La mutazione genetica, subita dallo stato di diritto liberale, consiste proprio in questa rivoluzione copernicana, in quanto mette al centro dell’ordinamento giuridico non più lo stato ma l’uomo come persona” (BALDASSARRE 2002: 48). Ciò equivale ad ammettere che non è l’individuo al servizio dello Stato, ma lo Stato al servizio dell’individuo o, detto in altri termini, che non è il potere politico che precede i diritti, ma i diritti il potere. È in questo mettere al primo posto la persona nei confronti dello Stato che ravvisiamo l’essenza del c. DD, che tuttavia è un’essenza condivisa con la DR. Quello che dovrebbe caratterizzare il c. DD è la corrispondenza tra la teoria e la pratica, ovverosia il fatto che il primato della persona dev’essere «effettivo» e deve tradursi in sovranità. Ciò vuol dire che la sovranità appartiene alla persona, che la esercita per mezzo della costituzione.

13.4. Il Costituzionalismo DR
Per definizione, i valori della C. sono supremi e relativamente immodificabili. Infatti, nemmeno l’Unione Europea ha il potere di modificare la C. italiana o disattendere i suoi princìpi. Si può facilmente comprendere, pertanto, l’enorme potere che esercita la Corte costituzionale, cui è demandata la facoltà di dire l’ultima parola sulla costituzionalità delle leggi del paese. Il punto debole di questa realtà è che la Corte costituzionale non è responsabile giuridicamente di ciò che fa e non risponde ad altri che all’”opinione pubblica” (BALDASSARRE 2002: 33). È come dire che essa esercita un potere sovrano autoreferenziale e non fondato sul popolo, ossia, in ultima analisi, un potere antidemocratico. Ma questo costituisce un problema secondario, il vero problema essendo invece che in tutti i paesi a regime DR non c’è alcuna garanzia che i principi proclamati nella c. vengono poi applicati fedelmente nella vita quotidiana e i fatti dimostrano che spesso i paesi DR sono incoerenti, nel senso che dicono delle cose e ne fanno delle altre.

12. Il federalismo

Il termine Federalismo (dal latino foedus: patto, contratto, alleanza) indica un «contratto» fra Stati sovrani, che rinunciano ad una parte della propria sovranità e si associano in un unico organismo politico, allo scopo, dichiarato o meno, di garantirsi migliori condizioni di pace interna e favorevoli opportunità in campo economico. Si tratta, in sostanza, di un sistema di divisione dei poteri che permette al governo centrale e a quelli regionali di essere, ciascuno nella sua sfera, coordinati e indipendenti. Di norma, i poteri attribuiti al governo federale riguardano la politica estera, la difesa, le dogane e la moneta, mentre, negli altri campi, si lascia libertà di manovra ai singoli Stati. In un senso più ampio, “il federalismo implica il collegamento di individui, gruppi e comunità politiche in una unione durevole ma limitata, in modo tale da permettere l’energico perseguimento di obiettivi comuni pur mantenendo le integrità di tutte le parti” (ELAZAR 1998: 6-7). Lo Stato federale garantisce che i diritti dei cittadini siano rispettati nei singoli Stati, mentre, a loro volta, i cittadini dei singoli Stati partecipano alla scelta del governo federale, secondo il principio «un cittadino, un voto».
Il modello confederativo si differenzia dal precedente perché i titolari di diritti-doveri non sono gli individui, ma gli Stati, i quali conservano la loro piena sovranità negli affari interni e godono di condizioni di uguaglianza, sancita dal principio «uno Stato, un voto». “Neppure in casi eclatanti di violazione di diritti umani fondamentali, come nel caso di genocidio, la confederazione ha facoltà di intervenire negli affari interni di uno Stato. I diritti degli individui non trovano altra protezione in una confederazione che non quella accordata loro dai singoli Stati” (ARCHIBUGI, BEETHAM, 1998: 92-3). Inoltre, la partecipazione di uno Stato alla confederazione è volontaria e revocabile.

12.1. Vantaggi del federalismo
In sostanza, come aveva già notato Montesquieu, il f. ha la proprietà di trasformare un piccolo e debole Stato in un organismo grande e potente, e ciò era considerato un grosso merito in un periodo in cui le grandi monarchie si misuravano sulla base della dimensione demografica, della ricchezza e della forza. “Composta di piccole repubbliche, essa [la Federazione] gode della bontà del governo interno di ciascuna; rispetto all’esterno poi, possiede, grazie alla forza dell’associazione, tutti i vantaggi delle grandi monarchie” (Montesquieu, Leggi, IX,1). In definitiva, il f. rende più forte il singolo Stato e ne riduce il rischio di soccombenza. E tutto ciò senza sacrificare la comunità locale, che anzi ha più probabilità di affermarsi e funzionare democraticamente.

12.2. Origini del federalismo: dalla famiglia alla nazione
Sulla terra coesistono circa tremila gruppi etnici e tribali, che generalmente sono così legati alla propria identità nazionale da non esitare a ricorrere alle armi qualora la sentissero minacciata da qualcuno. Dopo la famiglia e il clan, il gruppo etnico (o tribù, o nazione) rappresenta la forma di convivenza sociale più diffusa e di maggior successo, perché è quella che presenta il miglior rapporto fra il bisogno di sicurezza e il bisogno di libertà. Una famiglia, per quanto allargata, può comprendere al massimo qualche decina di unità, un clan, per quanto esteso, può arrivare a qualche centinaio. In entrambe le fattispecie, si tratta di compagini relativamente deboli e inadatte ad approntare una valida azione di difesa in caso di attacco dall’esterno da parte di una compagine di pari consistenza, o perfino meno numerosa, purché determinata a fare razzia di beni. Di ben altra tempra è una nazione composta da decine o centinaia di migliaia di unità, che vivono in un’area estesa come la Valle d’Aosta, dove hanno modo di frequentarsi regolarmente, comunicare, scambiarsi beni e cultura, parlare la stessa lingua, condividere gli stessi ricordi e lo stesso stile di vita. Una nazione distribuita su un’area molto più vasta rischierebbe di frantumarsi a causa delle difficoltà di comunicare e frequentarsi. Così intesa, la nazione rappresenta il massimo ordine di grandezza possibile per una società umana a formazione spontanea, il che è avvenuto grosso modo fino a 6-8 mila anni fa.
Questa prima forma di nazione inizia a prendere una chiara coscienza di sé solo nei casi di pericolo o di gravi difficoltà (carestie, alluvioni, incendi, epidemie), o in occasione di conflitti con nemici esterni e di guerre, quando cioè si rende necessaria l’unione solidale di tutti e il massimo senso di disciplina gerarchica sotto un capo comune. Cessato il pericolo, ciascuno tende a fare ritorno al consueto tran tran all’interno della propria famiglia e del proprio clan. Solo i capifamiglia e i capiclan continuano a frequentarsi regolarmente, si scambiano doni e informazioni, o facendosi visita reciprocamente, o riunendosi in un particolare luogo consuetudinario o sacro, dove si svolgono i riti più solenni in onore di una divinità comune o per celebrare un evento, come il raccolto. È in un siffatto contesto che maturano le condizioni per un accordo federale.

12.3. Diffusione della guerra
Questo quadro cambia con l’entrata in scena della guerra e la sua diffusione come strumento di conquista. Un condottiero può riunire intorno a sé anche una decina di tribù e sottometterne altrettante, creando così un piccolo regno, che risulta così formato di tante tribù unite nella figura di un capo supremo, o re, che si impegna a garantire la pace interna e a difendere il regno da eventuali attacchi dall’esterno. Per svolgere queste sue funzioni, il re impone dei tributi ai sudditi, in modo da poter mantenere una milizia armata e un adeguato numero di funzionari, che con lui collaborano. Di norma, re, milizia e funzionari risiedono in un villaggio fortificato o in una vera e propria città cinta da mura.
Un ulteriore cambiamento si verifica a partire da 5 mila anni fa, quando i re intraprendono un’intensa politica di alleanze e di espansione, da cui emergono personaggi particolarmente abili e fortunati, che riescono a conquistare grandi imperi e a fondare potenti e durature dinastie. Da questo momento, come ha osservato Tocqueville, “Tutti i popoli che hanno dovuto sostenere grandi guerre sono stati indotti, anche involontariamente, ad aumentare la forza del governo; quelli che non hanno potuto farlo, sono stati conquistati” (1996: 164-5).
Dalla città dove risiede (chiamata «capitale»), il grande re controlla e amministra il suo impero servendosi di un imponente apparato burocratico e di presidi militari dislocati nei punti strategici. L’impero si compone di centinaia di tribù, che sono sotto il comando di un signore locale. A fronte di un così radicale cambiamento del quadro politico, la vita quotidiana delle persone non presenta cambiamenti sostanziali. Ciascuno infatti continua a vivere all’interno della sua famiglia e del suo clan e continua a identificarsi con la propria nazione, cui si sente legato dalla comunanza di lingua, tradizioni, costumi e religione. In pratica, ogni nazione è costituita da tante comunità locali (CL), ciascuna della quali è governata da un signore, che di solito risiede in un villaggio fortificato, che costituisce il punto di riferimento per l’intera comunità. Il grande re dirime le discordie fra le nazioni a lui sottomesse e assicura la pace interna servendosi della minaccia militare e del diritto.

12.4. Esempi storici
Come primo caso noto di federazione nella storia viene indicato solitamente quello dell’antico Israele, mentre l’esempio più importante di federalismo medievale è rappresentato dalla “confederazione di repubbliche di montagne svizzere, costituita nel 1291 e finalizzata al mutuo soccorso nella difesa dell’indipendenza” (ELAZAR 1998: 102]. Giunto a maturità con la costituzione del sistema federale americano, il federalismo moderno si è espanso continuamente negli ultimi due secoli e oggi viene visto come una valida alternativa al nazionalismo.

12.5. Modelli di federalismo
“Esistono tre modelli principali di federalismo moderno: il sistema americano, svizzero e canadese” (ELAZAR 1998: 35], tutti accomunati dal fatto di essere dei sistemi DR a due livelli di cittadinanza e di rappresentanza, nel senso che “ogni individuo è nello stesso tempo cittadino del proprio Stato e della federazione” (LEVI 1997: 90) e contribuisce ad eleggere i rispettivi governi.

12.6. Condizioni del federalismo
In teoria è possibile una federazione di Stati retti da dittature, ma in pratica la federazione è più congeniale a sistemi democratici. Difficilmente, infatti, un dittatore accetterebbe di limitare il proprio potere. In teoria è anche possibile un accordo federale tra Stati che differiscono in quanto a forza militare e risorse economiche, in pratica però l’accordo è tanto più probabile quanto meno marcate sono queste differenze, perché abitualmente uno Stato molto più forte di un altro tende a dominarlo piuttosto che a considerarlo un partner di pari livello. L’esigenza di costruirsi in federazione viene avvertita principalmente da Stati opulenti, che intendono garantirsi condizioni di pace e consolidare le proprie posizioni. Al contrario, in caso di crisi economica o di grave minaccia esterna, prevale l’esigenza di costituire un governo unitario. “La guerra e la crisi economica richiedono un controllo unitario se si vuole che i loro problemi vengano effettivamente risolti, ed impongono degli sforzi finanziari che solo i governi centrali sono in grado di sopportare” (WHEARE 1997: 375).

12.7. Federalismo come strumento di pace
Un importante vantaggio del f. è quello di ridurre i costi degli armamenti per ogni singolo Stato e contenere il rischio della guerra. L’unione fa la forza e la Federazione rende più forte il singolo Stato e rende superfluo che esso incrementi la propria forza per non soccombere. Questo aspetto non è sfuggito a Tocqueville: “Tutti i popoli che hanno dovuto sostenere grandi guerre sono stati indotti, anche involontariamente, ad aumentare la forza del governo; quelli che non hanno potuto farlo, sono stati conquistati” (La democrazia in Am., 1835, pp. 164-5). Secondo Kant, “una federazione di Stati che si pone come obiettivo quello di allontanare la guerra è l’unico stato di diritto conciliabile con la loro libertà” (2002: 101).
Fino alla Convenzione di Filadelfia (1787), che segna l’inizio degli Usa, “la guerra è stato il mezzo più utilizzato nella storia per pacificare vasti territori” (LEVI 1994: 41). L’unità politica degli imperi si fondava sull’autorità dell’imperatore e su leggi comuni, ma, in ultima analisi, era mantenuta con la forza. “La costituzione degli Stati Uniti ha rappresentato una rottura della tradizione espansionistica e imperialistica nella formazione di nuovi Stati. Si tratta infatti del primo esempio di un’unificazione avvenuta in tempo di pace e con il consenso dei popoli” (LEVI 1994: 41). Da questo momento, è possibile vedere nel f. uno strumento di pace, che “risponde al bisogno dei popoli e delle comunità politiche di unirsi per perseguire fini comuni, restando tuttavia separati per conservare le rispettive integrità” (ELAZAR 1998: 28).
L’obiettivo ultimo del f. è la pace, e non è per caso che ovunque le federazioni si affermino, “gli Stati perdono il potere di fare la guerra, le relazioni internazionali perdono il loro carattere violento e la ragion di Stato perde la funzione di forza motrice della storia” (LEVI 1994: 39). È proprio in virtù di questa prerogativa che il bisogno di f. è cresciuto dopo la seconda guerra mondiale, quando le armi nucleari hanno reso estremamente pericoloso per tutti il vecchio costume di appellarsi alla guerra come arbitro ultimo nelle controversie fra i gruppi umani. Oggi, più che mai, l’umanità ha bisogno di pace, e in tal senso può trovare nel f. un valido strumento, capace anche di portare alla piena attuazione il processo di globalizzazione e anche di consentire il passaggio dalla DR alla DD. Ebbene, questo strumento può ben essere il federalismo di tutti gli Stati della terra, ossia il cosmopolitismo. Un f. mondiale dei popoli dovrebbe sancire la cessazione delle guerre tra Stati sovrani e garantire una pace universale durevole. Sec. J. Maritain, esso “appare come l’unica via aperta per la soppressione della guerra” (messaggio pronunciato alla radio di New York il 25.3.1944 (in POZZOLI 1997: 107).
In quanto strumento di pace, il f. non è né di desta né di sinistra, né progressista né conservatore. Esso è semplicemente “l’antidoto più efficace contro i rischi di concentrazione del potere, finanziario, mediatico e politico che minacciano alla base le fondamenta della democrazia moderna” (MARIUCCI 1996: 18).

12.8. Federalismo e democrazia
“Tra federalismo e democrazia esiste un legame stretto” (GROPPI 2004: 54). Il f. ha dimostrato, infatti, di poter funzionare solo con Stati repubblicani democratici, e non con monarchie o altre forme di governo autoritarie, e se ciò vale per la DR, a maggior ragione deve valere anche per la DD.
La principale riserva circa l’attuazione della DD consiste nel fatto che, da Aristotele a Rousseau, la DD è stata ritenuta adatta solo per comunità di piccole dimensioni, come le nazioni e le comunità locali, le uniche che consentano alle persone di incontrarsi, dibattere e deliberare. Il problema, si è detto, è che le piccole comunità non garantiscono l’indipendenza nei confronti dei grandi Stati e, indirettamente, nemmeno la libertà delle persone. Insomma, la DD andrebbe bene, ma non protegge adeguatamente gli individui dal rischio di essere assoggettati. Ed è proprio qui che può entrare in gioco il principio federale, il quale può rendere possibile ciò che prima era ritenuto impossibile, ossia la convivenza pacifica di entità politiche che da sole non potrebbero garantirsi la propria indipendenza. Che queste entità politiche siano Stati o piccole CL non dovrebbe avere alcuna importanza. In sostanza, oggi il f. può essere ritenuto, non solo un mezzo idoneo a consentire la coesistenza pacifica di una miriade di CL all’interno di un Sistema-Mondo, ma anche uno strumento per l’attuazione della DD.
“Dal momento che il potere non è riunito in un solo centro, nello Stato federale esistono le condizioni più favorevoli per l’autogoverno locale” (LEVI 1998: 379). Alla fine, la CL altro non è che il palcoscenico dove il cittadino democratico può recitare la parte che gli compete, e il f. diventa lo strumento per “la massima responsabilità per ogni essere umano e per ogni gruppo d’uomini in ogni campo della vita pubblica” (in POZZOLI 1997: 238).

12.9. Caratteristiche del federalismo
Secondo A. Lijphart, “si possono identificare cinque caratteristiche fondamentali del federalismo: una costituzione scritta, il bicameralismo, il diritto delle unità componenti ad essere associate nel procedimento di emendamento della costituzione federale, ma di poter modificare la loro costituzione unilateralmente, la rappresentanza uguale o non proporzionale delle unità componenti più piccole nella camera federale e il governo decentrato” (1988: 182). Simile è la posizione di Elazar: “La volontà di federarsi implica proprio questo: il desiderio di costruire una comunità politica composita sulla base di principi repubblicani, che si concretizza in un’apposita cornice costituzionale e che presenta come elemento fondamentale la condivisione del potere” (ELAZAR 1998: 160]. In estrema sintesi, repubblicanesimo, costituzionalismo e democrazia rappresentativa possono essere indicati come le colonne ideologiche del federalismo.
Sul piano organizzativo, invece, il f. si fonda su tre princìpi: il decentramento o devoluzione (devolution, in inglese), la sussidiarietà e la libertà.

12.9.1. Devoluzione
Decentramento significa trasferire quote di potere decisionale dal centro alla periferia, dallo Stato alle regioni o ad altri enti locali, avvicinare i cittadini e motivarli ad un maggior consenso e ad una maggiore partecipazione politica (GROPPI 2004: 53-5). Secondo Luttwak e Creperio Verratti, “soltanto con il decentramento si può realizzare la democrazia in senso attivo, cioè come vera partecipazione dei cittadini alla vita politica” (1996: 75).

12.9.2. Sussidiarietà
L’altro principio del f., la sussidiarietà, “prevede che le funzioni siano attribuite al livello più basso possibile, ma riconosce, al tempo stesso, se necessario, l’intervento di quelli superiori in un ruolo d’integrazione” (VENTURA 2002: 119). In altri termini, questo principio stabilisce che lo Stato interverrà nella vita delle istituzioni solo quando queste non dovessero riuscire a sbrigarsela da sole.
Si distinguono due tipi di sussidiarietà: una positiva, l’altra negativa. Secondo la s. negativa, o di non ingerenza, lo Stato non deve impedire agli individui e ai gruppi sociali di «fare» da soli. Secondo la s. positiva, o di ingerenza, lo Stato deve intervenire in ogni modo possibile: non solo formando i cittadini e sostenendoli sul piano morale, ma anche affiancandoli, fino a sostituirli. Solo apparentemente questi due tipi di s. sono incompatibili. In realtà, la massima espressività dell’individuo richiede uno Stato molto presente e funzionale, non solo per quel che concerne l’istruzione e i servizi formativi dell’individuo, ma anche per garantire condizioni di sicurezza e per attuare politiche di welfare a favore dei più sfortunati. Così concepito il principio di s. realizza un circolo virtuoso, secondo il quale “i cittadini producono la democrazia che produce i cittadini” (Morin 2001: 113).

12.9.3. Libertà
Secondo Elazar, i federalisti si distinguono dagli altri democratici perché vedono “la libertà come più importante rispetto alla lotta per l’uguaglianza assoluta [… e] sono disposti a sacrificare un certo grado di uguaglianza per il bene della libertà” (in Pozzoli 1997: 300).

12.10. Federalismo come antitesi dello Stato nazionale
Secondo Altiero Spinelli, il f. si pone come un’alternativa allo Stato-nazione: “I federalisti si distinguono da tutte le altre correnti politiche, siano esse democratiche o antidemocratiche, in ciò: che essi considerano come un nemico da abbattere quella stessa cosa che tutti gli altri considerano, ciascuno a modo suo, come un idolo da venerare o da servire: lo Stato nazionale” (in POZZOLI 1997: 287). Analoga è la posizione di Elazar: “Inteso correttamente, il federalismo si contrappone allo stato nazionale centralizzato e reificato, che è il principale prodotto del nazionalismo dell’epoca moderna” (1998: 105). Non ci sorprendiamo perciò se, oggi, di fronte all’evidente l’inadeguatezza dello Stato-nazione a fronteggiare i problemi del pianeta, il federalismo sia di grande attualità e ad esso si guarda come mezzo idoneo a superare le ideologie nazionalistiche degli Stati. È questo il contesto in cui s’iscrive il tentativo di realizzare un’Europa unita. “La novità dell’esperimento federativo europeo consiste nella ricerca di una risposta istituzionale alla crisi dello Stato sovrano” (LEVI 1998: 379).

12.11. Federalismo come cosmopolitismo
Oggi, il f. è considerato come un modello di organizzazione politica di successo e, secondo alcuni, potrebbe imporsi come l’unico strumento idoneo a realizzare un Mondo Unito Democratico. “Esso può essere istituito a livello delle unità statali, ma anche in un ambito più ampio, internazionale o addirittura mondiale, quale strumento di pacifica convivenza tra i popoli” (VENTURA 2002: 7). In sostanza, il f. può essere realizzato a livello di un singolo Stato, che si decentralizza suddividendosi in sub-Stati o Regioni sovrane, o a livello internazionale, realizzando, al limite, una Federazione mondiale. Questo era il sogno di Kant. “I popoli, in quanto Stati, possono essere giudicati come singoli uomini […] e ciascuno di essi può e deve esigere dall’altro di entrare con lui in una costituzione simile a quella civile, nella quale a ciascuno sia garantito il suo diritto. Questo costituirebbe una federazione di popoli, che tuttavia non dovrebbe essere uno Stato di popoli” (2002: 60). Kant pensa ad una Federazione mondiale, da istituire sulla base di un «contratto», come quello che, secondo i moderni, sarebbe stato stipulato dai singoli individui nello stato di natura. Sulla stessa linea si muove Proudhon, il quale considera il f. infranazionale il primo passo per raggiungere quello sopranazionale.
Il f. mondiale prevede, tra l’altro, la necessità di istituire un ordine giuridico internazionale, che regoli i rapporti fra gli Stati impedendo loro di muoversi guerra. L’obiettivo dichiarato è quello di garantire la pace facendo ricorso alla legge. C’è da annotare, tuttavia, che, se la legge fosse ingiusta, si potrebbe prevedere la nascita di focolai di tensione, che potrebbero mettere in pericolo lo stato di pace o esigere una pace di tipo totalitario e oppressivo, e da una pace indotta da una legge ingiusta potrebbe originare un mondo invivibile.

12.12. Il Federalismo DD
La DD guarda ai princìpi di decentramento e sussidiarietà con tale favore da esprimerli fino a realizzare un federalismo individuale, mettendo cioè le persone al posto delle istituzioni. Non solo lo Stato non dovrà intromettersi in ciò che l’individuo sia in grado di fare da solo (sussidiarietà negativa), ma dovrà adoperarsi per metterlo in grado di fare autonomamente sempre più cose (sussidiarietà positiva). In sostanza, il f. individualista vuole che tutti i cittadini, partendo da pari opportunità, abbiano la facoltà di accedere all’informazione, di stilare l’ordine del giorno e di partecipare in egual misura al potere politico.
L’esempio dell’Italia ci può aiutare a comprendere meglio e a giustificare il modello di f. di cui stiamo parlando. I federalisti dicono che il potere dev’essere partecipato alle regioni. Bene. Ma perché questa logica non dovrebbe essere applicata anche all’interno di una singola regione? “Prendiamo la Sicilia. Perché il potere dovrebbe rimanere concentrato a Palermo, e non invece diviso fra le province? Poi però anche i comuni potrebbero osservare: “Perché non dovremmo partecipare anche noi al potere?” I comuni, tuttavia, non sono entità semplici: al loro interno ci sono circoscrizioni, imprese produttive, unità commerciali, servizi, condomini e famiglie. C’è qualche ragione perché la logica federalista non debba essere applicata anche a queste entità? E così, seguendo questo percorso, giungiamo al singolo individuo. Perché negare al singolo individuo il diritto a candidarsi come il più piccolo e fondamentale centro del potere politico?
Per essere credibile, il f. non può fermarsi alla regione e nemmeno al capo-famiglia, come aveva fatto Proudhon, che pure aveva con ciò toccato un limite che era già da considerare coraggioso, ma dev’essere disposto a giungere fino all’individuo sovrano. A questo punto, però, che cosa sarebbe il federalismo se non una DD?
Secondo il mio modello DD, il F. ideale è quello che, coerentemente coi suoi princìpi, partecipa il potere a tutti i cittadini, ossia il F. individualista, il quale si basa sui seguenti princìpi:
1. Promozione dell’individuo.
2. Riconoscimento di alcuni fondamentali diritti individuali, e cioè:
a) pari opportunità;
b) parità di accesso all’informazione;
c) possibilità di accesso all’informazione alternativa;
d) possibilità di controllare l’ordine del giorno.
3. Rappresentanza solo con mandato imperativo.

12.13. Il Federalismo DR
Il f. ha dimostrato di trovarsi in sintonia con la DR, tanto che oggi è ben rappresentato nel panorama mondiale, dove ha assunto forme diverse (in Italia, per esempio, troviamo un accenno di f. nelle regioni). La caratteristica del federalismo DR, che chiameremo «statalista», è quella di riferirsi agli Stati o ad altre entità comunitarie (Regioni, Comuni, Istituzioni), mai alle persone, e questa è l’unica forma esistente di federalismo. La DR si guarda bene dall’estendere la logica federalista ai singoli individui e, abitualmente, si ferma alle regioni. In teoria, potrebbe accettare di includere le province e perfino i comuni, ma non è disposta a spingersi oltre. Così facendo, il f. finisce col moltiplicare le istituzioni dotate di potere politico (poliarchia), ma continua ad escludere i cittadini dalla partecipazione politica. Il risultato è che la società rimane di tipo duale, con una classe dominante minoritaria e la maggioranza dei cittadini sottomessi, il cui unico potere riconosciuto è quello di eleggere liberamente i propri rappresentanti.
Chi ci guadagna in un siffatto ordinamento politico? Certamente gli uomini che hanno aspirazioni di potere. Un sistema federale, infatti, ne può accontentare un numero maggiore che qualsiasi altra forma di governo. Certo, i signori di Roma dovrebbero dividere il potere con quelli della periferia, quindi vedrebbero ridotto il proprio potere, ma in compenso la loro posizione risulterebbe più stabile. Globalmente considerato, il potere risulterebbe più esteso e livellato, ma anche più sicuro, sia a causa delle condizioni di pace garantite dal f., sia perché tutti i più temibili concorrenti, avendo già la propria fetta di potere, sarebbero poco motivati ad agitare le acque. Semmai ci si potrebbe aspettare qualche rimpasto, qualche scambio di ruoli, ma la classe dominante rimarrebbe comunque ben salda al comando. Oltre agli uomini di potere, a guadagnarci sarebbero i centri più ricchi di risorse, che potrebbero avere la meglio nella competizione con gli altri centri meno fortunati e diventare sempre più ricchi. Non per niente il f. è caldeggiato prevalentemente dalle regioni più benestanti e dai personaggi medio-borghesi con ambizione di potere.
E i cittadini comuni? Per loro cambierà poco o nulla. Il potere non sarà mai nelle loro mani. Essi continueranno ad eleggere i propri rappresentanti con delega apparentemente soggetta a verifica periodica, ma in realtà in bianco, e il loro voto sarà conteso a suon di spot pubblicitari e di campagne propagandistiche da parte di chi detenga il potere economico e controlla i mezzi di informazione di massa. Così a governare il Paese resteranno solo quanti avranno grossi interessi privati da difendere, i quali verranno sostenuti da una massa di cittadini ignari di essere solo uno strumento. In pratica, il Paese sarebbe governato da potentissimi gruppi, società, compagnie e lobby, e all’insegna dei loro interessi: gli Stati Uniti insegnano. Anche se dovesse essere concessa ai cittadini la facoltà di prendere una qualche decisione attraverso il voto referendario, in realtà, fintantoché il potere sarà nelle mani dei rappresentanti, questi troveranno mille espedienti per impedire che prevalga la volontà del popolo. Così, il governo del Paese sarà appannaggio dei cittadini dalla classe media in su, i quali governeranno a proprio vantaggio, mentre una larga fascia della popolazione continuerà a confrontarsi quotidianamente con problemi di mera sopravvivenza, nel rispetto del tipico modello capitalista: chi è ricco diventa sempre più ricco, chi è povero sempre più povero.

11. La sicurezza

Fino a tempi recenti si è creduto che la «sicurezza» dei cittadini dipendesse da quella dei confini nazionali, il che giustificava il mantenimento di un adeguato dispositivo militare in funzione difensiva, cui il cittadino era chiamato a dare un contributo, fino al sacrificio della propria vita. Al cittadino si riconosceva un valore secondario rispetto a quello dello Stato, ma sufficiente a meritare di essere pianto pubblicamente in caso di morte in difesa dello Stato, anche se talvolta si poteva intravedere nelle parole pronunciate dai funzionari una certa retorica. Al contrario, l’individuo spogliato della cittadinanza non è stato considerato un soggetto di valore, almeno fino a quando, con l’affermazione della psicologia come scienza autonoma dalla filosofia (1879), non si è preso coscienza delle complesse dinamiche mentali che fanno di ogni soggetto umano un delicato portatore di bisogni.
Occorre aspettare la fine della seconda guerra mondiale perché gli uomini si rendano conto che il principale nemico di un popolo non proviene da oltre confine. Risulta evidente, infatti, che l’esistenza di ordigni atomici e la diffusione dei regimi democratici rendono improbabile il rischio di una nuova guerra. Ecco allora che l’attenzione si va spostando sulle persone, e si scopre che queste sono minacciate nei propri bisogni da fattori che si producono e agiscono all’interno dello Stato, nel mondo del lavoro e fino all’interno delle mura domestiche. Si scopre cioè che, oltre ad una sicurezza nazionale, esiste anche una sicurezza della persona, che è più difficile da cogliere, ma che forse è ancora più importante, e si riferisce all’individuo come tale, indipendentemente dal suo essere cittadino. In Italia, per esempio, si scopre che tutti gli individui che risiedono dentro i confini dello Stato si sentono minacciati e insicuri ogni qualvolta un proprio bisogno biologico o psichico non riceva adeguata soddisfazione, allo stesso modo in cui si poteva sentire minacciato il cittadino nelle epoche passate in caso di attacco militare dall’esterno.
In sostanza, il termine «sicurezza» è polisenso, perché può essere riferito sia ai bisogni della persona (ai suoi diritti), sia ai bisogni dello Stato (sicurezza delle istituzioni, dei confini, diritto internazionale) e fra queste due aree non c’è una necessaria corrispondenza: uno Stato potrebbe bensì essere sicuro nei confini e avere istituzioni ben salde, e i diritti delle persone essere scarsamente tutelati. Il contrario però non avviene. È impossibile infatti che, se tutte le persone di un paese godono dell’esercizio pieno dei propri diritti, non si possa poi dire altrettanto dei diritti di quel paese e delle sue istituzioni. Da ciò possiamo ricavare il principio che i diritti della persona sono primari, quelli dello Stato derivati. Ciò che conta, in definitiva, è che le persone abbiamo pari opportunità e siano lasciate libere di attuare il proprio progetto di vita. Tutto il resto è secondario. Dello Stato si potrebbe anche fare a meno. In altri termini, lo Stato si giustifica solo se favorisce o garantisce l’esercizio dei diritti delle persone.

11.1. La sicurezza come bisogno fondamentale dell’uomo
Questa premessa mi serve per giustificare la scelta di occuparmi principalmente della sicurezza della persona, quella che comunemente viene chiamata «sicurezza sociale» e che viene tradotta in pratica in un sistema di welfare, che comprende pensioni, assistenza e sussidi di vario genere o, più semplicemente, quello che viene chiamato «diritto di cittadinanza», ovverosia la “garanzia di uno standard di vita minimo” (SOMAINI 1997: 768). Così intesa, la s. è un bisogno fondamentale dell’uomo, che si colloca sullo stesso piano di altri bisogni primari, come quello del cibo, della salute e della socialità e che anzi li comprende. Una persona che non può esercitare i propri diritti avverte una qualche sensazione di disagio e insicurezza e, viceversa, una persona che si sente insicura ha certamente qualche problema nell’esercizio dei suoi diritti e non sarà in grado, né di esprimere pienamente il proprio potenziale genetico, né di costruire e svolgere in modo soddisfacente il proprio progetto di vita.

11.2. I fattori di insicurezza
Con la diffusione della democrazia liberale e la proclamazione dei diritti dell’uomo, la s. non si riferisce più allo Stato, bensì alle persone, perde cioè il suo significato politico e oggettivo e ne assume uno psicologico e soggettivo.
I fattori di insicurezza della persona sono numerosi e si possono distinguere in esterni o pubblici e interni o privati. I fattori esterni, che vanno dalla criminalità alla precarietà del lavoro, dall’immigrazione all’inquinamento, dal terrorismo all’inflazione, dall’instabilità della borsa alla difficoltà di giungere a fine mese, e via elencando, sono relativamente facili da quantificare. Basti pensare agli episodi di sfruttamento, di molestie sessuali e di mobbing, che si registrano nell’ambito lavorativo, soprattutto a danno dei soggetti più deboli o che oppongono resistenza ai tentativi di un loro asservimento. Meno facile è valutare l’insicurezza che origina dai fattori interni, ossia nell’ambiente domestico. “La violenza perversa nelle famiglie costituisce un ingranaggio infernale difficile da arginare, perché tende a trasmettersi da una generazione all’altra. Siamo qui nel registro del maltrattamento psicologico, che sfugge spesso alla vigilanza dell’ambiente circostante, ma che provoca sempre più danni” (HIRIGOYEN 2000: 34). E allora è questa la nuova emergenza: non più i confini della patria, ma la sicurezza della persona. Il vecchio schema è ribaltato: non si deve chiedere più al cittadino di sacrificarsi per lo Stato, ma si deve chiedere allo Stato di garantire i diritti democratici dei cittadini. Ed è proprio questo il senso degli artt. 2, 3, 32 e 38 della costituzione.

11.3. Sicurezza o libertà?
C’è un problema: l’esigenza di s. può confliggere col bisogno di libertà. Infatti, più i membri di una società sono liberi, più alto è il rischio che possano danneggiarsi a vicenda, e più vogliamo limitare questo rischio e più limiteremo la libertà delle persone. “L’acquisizione della sicurezza impone sempre il sacrificio della libertà, mentre quest’ultima può espandersi solo a spese della sicurezza. Ma la sicurezza senza libertà equivale alla schiavitù […]; mentre la libertà senza sicurezza equivale a essere abbandonati a se stessi” (BAUMAN 2001: 20). È lo Stato che deve farsi carico di affrontare questo problema e trovare il modo di garantire il massimo di s. alle persone senza privarle della libertà. Possiamo adesso chiederci come DD e DR affrontano questo problema e come rispondono al bisogno di sicurezza in generale.

11.4. La sicurezza DD
Alla DD non basta che sia rispettata la legge o che siano sicuri i confini dello Stato. La DD vuole che nessun individuo sia, o si senta, minacciato, schiacciato, oppresso, insidiato nei propri diritti, nella propria integrità psico-fisica e nei propri beni, perché, se è al sicuro il singolo, è anche al sicuro lo Stato. Secondo la DD, il modo più efficace di coniugare il massimo di s. col massimo di libertà consiste essenzialmente nel riconoscere le pari opportunità e un RMG, ma anche nel creare le condizioni che favoriscono l’effettivo esercizio dei propri diritti fondamentali e la libera attuazione del proprio progetto di vita, ovverosia un valido sistema di istruzione e di educazione civica, insieme all’introduzione dell’uso esclusivo di denaro elettronico.

11.5. La sicurezza DR
Nei paesi a regime DR, dove non c’è il rischio di guerre, il termine «sicurezza», anziché riferirsi alla difesa dei confini dello Stato, si riferisce essenzialmente alla difesa delle istituzioni, delle leggi e della proprietà privata, ma il risultato non cambia. Il postulato DR è che, se sono rispettate le istituzioni, la legge e la proprietà privata, sono anche sicure la popolazione, le famiglie e le persone.
Con questa logica, i progetti di vita individuali rischiano di essere compromessi a causa di una cronica situazione di insicurezza, che può colpire il soggetto, nel suo contesto sociale o familiare, anche se i mass media parlano poco della società o della famiglia come cause di insicurezza. Eppure, se guardiamo la realtà con gli occhi della persona, noteremo che l’insicurezza è la stessa, sia che provenga da violenze subite nell’ambiente sociale o domestico, sia che provenga dalle istituzioni dello Stato o da qualche minaccia esterna, e non è vero che l’insicurezza generata da cause interne faccia meno male o sia meno degna di attenzione dell’insicurezza generata da cause esterne. Insomma, quando Piero Fassino afferma che in Italia c’è “una diffusa percezione di insicurezza, che è aumentata in questi ultimi anni” (2001: 4), on si riferisce di certo a nemici esterni.
Non rientra nelle mie intenzioni addentrarmi in un argomento di cui credo ci sia abbastanza consapevolezza e abbondanza di letteratura. Mi limito perciò a citare la conclusione di uno studio eseguito da Michele M. Correra e Pierpaolo Martulli, che, benché sia stato condotto una ventina di anni fa, fotografa una situazione che, a quanto mi risulta, non è mutata in questi ultimi anni: “il rischio di subire violenza da parte di un altro membro della famiglia è mediamente assai più elevato rispetto a quello di essere aggredito per strada da sconosciuti” (1988: 17). Più precisamente, episodi di violenza fisica avverrebbero nel 30% delle famiglie e ne sarebbero vittime milioni, dico milioni, di soggetti deboli, specialmente donne e bambini. Le conseguenze di questo «disagio» familiare sono descritte dagli stessi autori in modo crudo, ma realistico: “Una famiglia inadeguata e violenta, soprattutto quando maltratta o trascura i fanciulli, non solo viene meno alla sua funzione, ma addirittura la perverte, generando sofferenza, disadattamento e devianza” (CORRERA, MARTULLI 1988: 185).
I governi DR tendono a sottovalutare i fattori d’insicurezza che si originano all’interno delle famiglie, con la conseguenza di non approntare servizi capaci di sostituire validamente le famiglie mal funzionanti e condannare molte persone ad un triste destino. Si tratta principalmente di bambini e giovani donne, che sono costretti a vivere in famiglie con problemi, dalle quali sono ostacolati nell’esercizio dei loro diritti e che spesso vengono avviati al lavoro e/o alla prostituzione, capri espiatori di un modello culturale che non prevede validi succedanei alla famiglia. I confini dello Stato saranno pure al sicuro, la proprietà sarà tutelata, le leggi saranno osservate, si potrà uscire per strada senza pericolo, ma questo non impedisce che vengano perpetrate innumerevoli atti di violenza, su milioni di bambini, donne e anziani all’interno delle mura domestiche, che la DR protegge come se si trattasse di un luogo sacro e inviolabile.

10. La famiglia

Essenzialmente, la f. è l’insieme di soggetti che procreano e si prendono cura della prole. Queste due funzioni possono anche essere svolte separatamente, ma sono entrambe necessarie perché si possa parlare di famiglia. La famiglia naturale si fonda sul legame sessuale di due o più soggetti di sesso diverso e sul legame parentale genitori/figli, ed ha, come scopo immediato, la risposta ai bisogni dei singoli individui-membri e, come scopo ultimo, la riproduzione della specie. Ai fini naturali non fa differenza se i genitori siano formati da una semplice coppia o da più figure maschili e femminili, né importa che la loro unione sia formalizzata da un contratto legale o resa indissolubile da un sacramento. Dal punto di vista naturale quello che importa è che qualcuno generi dei figli e che alcuni di questi possano sopravvivere fino a quando non potranno riprodursi a loro volta.
L’inizio dell’atto generativo corrisponde all’unione dei gameti maschile e femminile, che di norma, ma non necessariamente, avviene con l’atto sessuale e si conclude dopo nove mesi col parto e con la presa in carico del bambino. Che a prendersi cura del bambino sia la madre biologica, o una balia, o la comunità (ad esempio, il kibbutz), o una coppia di lesbiche, o la «lupa» di Romolo e Remo, è un elemento accessorio, così come sono accessori i modelli di f. che si sono affermati nelle diverse epoche e nei diversi luoghi e di cui la f. nucleare costituisce solo un esempio. Gli elementi accessori che intervengono nel processo riproduttivo sono tali e tanti e si correlano in modo così variabile che, per quanto possa sembrare sorprendente, ad oggi “non vi è un pieno accordo nella definizione di famiglia” (BARBAGLI 1993: 776).
Nonostante il fatto che oggi, come vedremo, la f. manifesti vistosi segni di crisi, non mancano gli estimatori ad oltranza, i sostenitori incondizionati, soprattutto in ambito religioso, ma non solo. La Anshen, per esempio. difende la famiglia e vede in essa “la più elementare e universale forma di società, che contiene tutte le molteplici potenzialità per l'esplicarsi della personalità umana” (1974: 27). Nonostante la perdita di molte tradizionali funzioni, per Linton “la famiglia rimane ancora lo strumento migliore per la cura e specialmente per la socializzazione del bambino” (in ANSHEN 1974: 53).

10.1. Funzioni della famiglia
La famiglia si è affermata in natura come strumento finalizzato alla riproduzione e alla sopravvivenza della specie. Per milioni di anni essa ha provveduto a soddisfare i bisogni della prole fino al raggiungimento dell’età adulta che, spesso, corrisponde alla pubertà. Quando il bambino raggiunge questo traguardo, i genitori lo allontanano e, da quel momento, egli deve provvedere a se stesso. All’interno della famiglia la divisione del lavoro è limitata alla funzione riproduttiva e il peso maggiore della cura dei figli grava sulla madre, almeno fino a quando il bambino ha bisogno del suo latte. Dopo lo svezzamento, i bambini cominciano a imitare i grandi nell’attività di raccolta del cibo, ma possono contare sull’aiuto e sull’offerta di cibo da parte dei genitori, che decresce col passare del tempo, fino a cessare del tutto con la pubertà. La regola è che, nei limiti delle proprie possibilità, ciascuno consuma ciò che raccoglie e, quando diviene adulto, ciascuno si cerca il suo partner e forma la sua famiglia.
Alla f. possono essere attribuite due principali funzioni: provvedere ai bisogni biologici ed educare all’autonomia i propri piccoli. La famiglia è innanzitutto l'area in cui vengono soddisfatti i bisogni primari dell'uomo e della donna, "tutti quei bisogni che l'uomo e la donna condividono con i primati" (ACQUAVIVA 1981: 5). Ma, se la f. si limita ai bisogni biologici e trascura di rispettare i tempi dei bambini in relazione alla loro richiesta di autonomia, essa non ha svolto per intero il proprio dovere.
“Il genitore cammina per la strada stringendo la mano del suo bambino. Ad un certo punto c’è una necessaria rottura di reciprocità – il genitore stringe la mano del bambino, ma questi non stringe più la mano del genitore. Per una sottile alterazione cinesica della pressione della mano, il bambino di tre o quattro anni indica al genitore che vuole fare da solo la propria strada nel proprio tempo. Il genitore può scegliere tra il rafforzare la stretta o correre quello che gli hanno insegnato essere un grosso rischio – permettere cioè che il figlio lo lasci nel momento scelto dal bambino stesso e non in quello stabilito dal genitore o dalla società” (COOPER 1972: 21). Così è sempre stato sin dalle più remote origini dell’homo, ma, nel corso del tempo, è cambiato il modo in cui la f. ha interpretato questo ruolo.

10.2. La famiglia nella storia
Con le guerre di conquista e l’affermazione della proprietà privata si è avvertita la necessità di legalizzare la famiglia ed elevarla a soggetto giuridico, così che il patrimonio potesse essere trasmesso in eredità ai discendenti secondo la legge. Sotto il profilo legale, si chiama f. il gruppo che la legge riconosce strettamente imparentati e, in quanto tali, soggetti di diritti e doveri reciproci. L’evoluzione culturale ha contribuito a dare alla famiglia forme e significati diversi, fino a stravolgere le sue connotazioni primigenie. Oggi abbiamo famiglie composte da: una sola persona, una coppia eterosessuale con figli nati da seme di donatori o in provetta, una coppia di gay o di lesbiche, un solo adulto con figli adottivi, piccole comunità senza legami di sangue, confraternite, sodalizi, che si conducono in modo «familiare», e via dicendo. Sotto il profilo culturale, la f. è un gruppo promiscuo di persone che si riconoscono strettamente imparentate, anche se non lo sono di fatto, e si comportano come se lo fossero.
Il principio della parentela allargata, sui cui si è fondata la famiglia sin dalle epoche più antiche e fino all’età medievale, ha cominciato a declinare a partire dal XVI secolo, a favore di un nuovo soggetto, la famiglia nucleare, che ha iniziato la sua ascesa, associandosi ad un rafforzamento del ruolo del padre e dei rapporti di autorità. “Durante il periodo tra il 1500 e il 1660 vi sono prove inconfutabili della ferma determinazione di spezzare la volontà del bambino e di rafforzare la sua totale subordinazione all’autorità dei più anziani e dei superiori, in particolare dei suoi genitori” (in ROSENBERG 1979: 47). “L’importanza attribuita alla disciplina famigliare e la completa subordinazione del figlio trovarono espressione nelle manifestazioni di deferenza particolarmente vistose che i figli erano tenuti a tributare ai genitori.... Ci si aspettava che i figli, anche da adulti, si togliessero il cappello al cospetto dei genitori, e le figlie avrebbero dovuto stare in piedi in presenza della madre” (ib. p. 53). “Era una società veramente autoritaristica, in cui la libera espressione della volontà non sarebbe stata tollerata” (ib. p. 56).
Fino agli inizi del XX secolo, era opinione diffusa che bisognasse essere severi con i figli piccoli per abituarli a ubbidire e stare sottomessi da grandi. “La giustificazione principale delle eccezionali misure adottate per spezzare la volontà del figlio fin dall’inizio era che più tardi egli avrebbe accettato con rassegnazione passiva le decisioni dei suoi genitori nelle due scelte di maggiore importanza della vita di ogni uomo. Erano i genitori a decidere, tenendo conto innanzitutto degli interessi della famiglia, quale dei figli dovesse sposarsi e quale dovesse essere avviato alla carriera ecclesiastica, o nella magistratura, nel commercio o in qualche altra occupazione” (ivi p. 58).
“Alcune testimonianze ci suggeriscono che, nel XVI secolo, andava sviluppandosi un’analoga tendenza all’autoritarismo nei rapporti fra marito e moglie” (ivi p. 64). “Evidentemente le donne non erano persone libere, e quindi non potevano essere chiamate a votare più di quanto non lo fossero i bambini o i servi di casa” (ivi p. 65). Questa condizione era approvata dalla chiesa, che vedeva nell’obbedienza “il primo requisito per un matrimonio felice e cristiano” (ivi p. 68).

10.3. La famiglia e lo Stato
In generale, il rapporto fra l’individuo e lo Stato non si svolge in modo diretto, ma attraverso una qualche istituzione intermedia, fra cui un ruolo fondamentale è interpretato dalla famiglia. La f. è dunque un intermediario privilegiato tra lo Stato e i cittadini, ma questa funzione varia a seconda che lo Stato eroghi servizi eccellenti o modesti. Se lo Stato non è in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini, è la famiglia che deve farsi carico di questa funzione e deve farlo nelle nuove condizioni offerte dalla società civile: la principale differenza è che i figli continuano a far parte della famiglia anche quando sono divenuti adulti e hanno formato una loro famiglia, e perfino se hanno cambiato residenza e si sono insediati a grande distanza dai consanguinei. Se invece lo Stato è in grado di surrogare validamente la famiglia, in questo caso i genitori, in special modo la donna, possono attuare in piena libertà il proprio progetto di vita. In uno Stato efficiente, la f. dovrebbe limitarsi a svolgere la funzione sessuale-riproduttiva, in un modo da preservare la libertà dei singoli membri che la compongono. La domanda che ci poniamo è la seguente: ha ancora senso oggi il ruolo centrale che la famiglia svolge nel contesto sociale?

10.4. La famiglia nell’ultimo secolo: un soggetto in crisi
Questo modello di f. ha subito importanti trasformazioni ad iniziare dall’epoca della prima guerra mondiale, quando l’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro si è accompagnata ad un significativo calo della natalità ed ha aperto la questione di chi si dovesse occupare dei figli mentre le madri erano assenti per lavoro. Si sono così affermate nuove figure, come i nonni o le baby-sitter, e nuove istituzioni, come gli asili nido e le scuole a tempo pieno. Grazie anche all’aumentata facilità di viaggiare e di spostarsi, molti giovani hanno scelto di studiare o lavorare lontano da casa. Se a ciò si aggiunge la diffusione della televisione, che assorbe una consistente parte della giornata ad una grande massa di persone, si comprende la tendenza dei figli a sfuggire al controllo dei genitori e intraprendere indirizzi imprevedibili, con aumento del rischio di incomprensioni e conflitti, che sono resi più frequenti a causa delle aumentate esigenze delle persone. Nello stesso tempo, grazie all’indipendenza economica, le donne lavoratrici chiedono più libertà e condizioni di parità nei confronti dei coniugi, e questo porta all’affermazione dell’istituto del divorzio. Scossa da tutte queste trasformazioni, la famiglia entra “in una situazione di crisi” (BERGER 1977: 131), che è alimentata dal dubbio che essa non sia più all’altezza dei compiti che ha svolto nel passato, né sia più il luogo privilegiato della realizzazione personale, com’era sembrata esserla un tempo.
Oggi, stiamo assistendo ad una progressiva perdita di funzioni della famiglia. “Le sue funzioni educative, di socializzazione, di assistenza, sono in gran parte cedute allo Stato, o ad apparati pubblici e semipubblici” (MANCINA 1981: 54). Secondo Talcott Parsons (1902-79), la famiglia conserva solo funzioni di socializzazione, che comprendono: l’educazione dei bambini ad accettare e interiorizzare le regole sociali e la stabilizzazione nell’adulto dei processi educativi iniziati nell’infanzia (1965, 1987).
Una delle principali cause di crisi della f. è che, almeno sotto il profilo dell’analisi economica, i figli sono diventati “un bene di consumo di lusso il cui prezzo è in rapida crescita” (THUROW 1997: 35) e non vengono più percepiti dai genitori come un vantaggio, ma come un onere. Psicologicamente questo può agire da deterrente per la funzione riproduttiva della coppia, specie in un periodo dominato da un elevato standard di esigenze, dalla precarizzazione del lavoro e dall’insicurezza del mercato, tutti fattori che fiaccano la volontà della coppia di affrontare i propri impegni genitoriali e favoriscono per converso comportamenti di tipo eudemonistico, che mettono in primo piano la realizzazione del piano di vita della persona, e non più il suo spirito di abnegazione.
È anche in quest’ottica che va interpretato il crescente interesse della donna di affermarsi professionalmente e di partecipare alla vita produttiva. E allora, delle due l’una: “o si sacrifica la famiglia per salvare la professione, o si rinuncia alla professione per dedicarsi alla famiglia” (TESTA 1978: 127). La terza soluzione, cioè salvare l’una e l’altra, sembra insostenibile. Ma, a mio parere, è insostenibile solo se pretendiamo di salvaguardare le prerogative della famiglia tradizionale, ovverosia se si vuole che la madre continui ad occuparsi a tempo pieno dei propri figli. Diventa invece sostenibile a condizione che la donna accetti di pagare un costo personale (una certa discriminazione nel mondo del lavoro a causa del suo essere donna) e riceva aiuti su più fronti (licenza di assentarsi dal lavoro per gravidanza o maternità, asili nido, baby-sitting, aiuto dei nonni, scuole a tempo pieno), ma, così facendo, viene a declinare il ruolo centrale e quasi esclusivo che la tradizione ha assegnato alla «madre». Insomma, la donna può conciliare i suoi due opposti desideri, di realizzarsi come madre e come soggetto politico, solo a condizione di accettare qualche limitazione in ambito lavorativo e, soprattutto, un sensibile ridimensionamento del suo ruolo di madre, il che equivale ad attuare una profonda trasformazione della famiglia tradizionale.

10.5. Verso una nuova famiglia
Ora, se si tien conto che, insieme alla scuola, la famiglia è il principale veicolo formativo dell’individuo, se ne deve trarre la conclusione che le sue condizioni di crisi generano sofferenza nell’intero sistema sociale e devono indurre ogni governo ad attuare politiche di ampio respiro per la famiglia, Ma cosa fa, e cosa può fare, concretamente uno Stato nei confronti della famiglia? Lo Stato può agire in più direzioni: può decidere di sostenere e coadiuvare la f. nei suoi difficili e delicati compiti educativi, oppure può addossare interamente su di essa il peso della responsabilità della crescita dei figli; può approntare dei validi servizi sostitutivi, ai quali ricorrere nel caso in cui la f. mostrasse evidenti carenze e disfunzioni, oppure considerarla come l’unica istituzione in grado di prendersi cura dei figli. Uno Stato può, o non può, avere il coraggio di ammettere che la f. naturale, centrata sulla madre, può o deve essere sostituita da una nuova famiglia, che possiamo chiamare «sociale», che è centrata su più figure e sul gruppo dei pari, un po’ com’è avvenuto all’interno dei kibbutzim israeliani (cf. BETTELHEIM 1977), in cui la donna ha barattato il proprio modello tradizionale di madre per acquistare la piena parità con l’uomo e il massimo grado di realizzazione professionale.
La nuova «famiglia sociale» sembra rispondere meglio alle esigenze dei tempi moderni, in cui risulta cambiato non solo il ruolo della madre, ma anche quello dei figli. “Mentre prima il bambino era un bene individuale, sul quale la famiglia contava per la propria sopravvivenza, ora è un bene sociale, una ricchezza della quale tutta la collettività deve farsi carico perché tutta la collettività ne trae beneficio” (AA.VV. 1981: 136-7). Alla fine, uno Stato dovrà essere valutato in ordine alla politica per la f.

10.6. Un modello di «famiglia sociale»: il kibbutz
I kibbutz si sono assunta la maggior parte delle funzioni della famiglia e hanno avocato a sé la responsabilità della cura fisica e dell'allevamento dei bambini, riducendo in tal modo gli obblighi e i legami dei genitori (SARACENO 1975: 236-273). “Fondamentalmente i bambini appartengono alla comunità nel suo insieme" (SARACENO 1975: 238). Ma il legame con la famiglia non è abolito. "I bambini incontrano i propri parenti e fratelli nelle ore libere e passano i pomeriggi e la prima parte della serata con loro; al sabato e nei giorni di festa stanno per la maggior parte del tempo con i genitori...” (SARACENO 1975: 237). “L'estrema limitazione delle funzioni della famiglia nella sfera del mantenimento e della socializzazione dei bambini non ha condotto alla distruzione della solidarietà familiare. Paradossalmente, la riduzione degli obblighi ha rafforzato piuttosto che indebolito il rapporto genitori-figli e ha aumentato l'importanza dei legami emotivi tra loro” (SARACENO 1975: 241).

10.7. La famiglia DD
Il presupposto teorico è che, con la famiglia, la natura non abbia inteso selezionare un essere collettivo allo scopo di superare l’essere individuale, ma, più semplicemente, abbia voluto tutelare meglio l’individuo, offrendogli un efficace strumento per la sua sopravvivenza. Il fine è l’individuo, non la famiglia, ed è al primo che bisogna pensare, non alla seconda. La DD assume che è la famiglia al servizio dell’individuo, e non viceversa, e ritiene che la famiglia debba svolgere la preziosa e irrinunciabile funzione di contribuire a formare cittadini liberi e responsabili. Di conseguenza, essa attua una politica di sostegno per le coppie in procinto di sposarsi e per i genitori, che comprende servizi, corsi formativi e assistenza psicologica. “Mentre prima il bambino era un bene individuale, sul quale la famiglia contava per la propria sopravvivenza, ora è un bene sociale, una ricchezza della quale tutta la collettività deve farsi carico perché tutta la collettività ne trae beneficio” (BELOTTI 1981: 136-7).
La DD parte dall’assunto che la famiglia biologica non è necessaria per uno sviluppo armonioso del bambino, in ciò confortata dal fatto che le allarmanti conclusioni di Bowlby riguardanti i gravi effetti sul bambino derivanti dalla separazione definitiva dalla madre, sono state smentite dagli studi successivi (cfr. RUTTER 1973). Pertanto, la famiglia biologica può e deve essere surrogata da adeguati servizi predisposti dallo Stato.
La DD è anche convinta che “far venire al mondo un bambino senza avere ragionevoli prospettive di potere non solo procurargli alimento per il corpo, ma istruzione e esercizio per la mente, è un crimine morale, sia contro la sfortunata prole che contro la società” (MILL 1997b: 121). A tale scopo, essa attua una politica adeguata a favorire la paternità responsabile e tale da garantire un lavoro per tutti e un RMG di buon livello.
Tuttavia, la DD non può non prendere atto che non sempre la famiglia costituisce un organo positivo per la salute fisica e psichica dei propri membri, ma che talvolta essa è causa di problemi insuperabili e di molteplici disfunzioni, ad esempio, una scarsa compatibilità fra i partner della coppia, o fra genitori e figli, crisi finanziarie, malattie, infortuni, disturbi psicologici o psicotici, situazioni troppo difficili da affrontare, e via dicendo. Qualunque ne sia la ragione, una disfunzione familiare può arrecare danni irreparabili per gli individui, particolarmente per i membri più deboli e vulnerabili, per i quali la f. può diventare un luogo di sofferenza e un ostacolo sia per la propria crescita che per il proprio progetto di vita.
Per uno Stato DD queste evenienze sono intollerabili ed è allo scopo di minimizzarle che esso predispone efficienti servizi di supporto per i soggetti che soffrono all’interno delle proprie mura domestiche e, limitatamente ai casi in cui non si intravedono soluzioni, appronta strumenti di surrogazione della famiglia stessa. Insomma, la f. è un mezzo e, quando il mezzo dimostri di non funzionare e appaia impossibile ripararlo, non si deve esitare a cambiarlo, se si vuole evitare che faccia danni alle persone.

10.8. La famiglia DR (il caso Italia)
In Italia continuiamo a rapportarci alla f. come se essa non avesse subito perdite di funzioni, come se le madri avessero mantenuto il loro ruolo centrale tradizionale, come se tutte le altre figure che, a vario titolo, affiancano la madre nella cura dei bambini, non esistessero. Continuiamo, insomma, a descrivere una f. che non c’è e, così facendo, manchiamo di utilizzare tutto il potenziale delle «altre» figure materne. Noi non vediamo, non vogliamo vedere, la nuova «famiglia sociale», che è fatta di nonni, di volontari e di figure professionali, ma ci ostiniamo a vedere solo la madre (e, in parte, anche il padre), perdendo così l’opportunità di ricorrere all’apporto della «famiglia sociale», che potrebbe essere prezioso tutte le volte in cui, per un motivo o per l’altro, i genitori biologici non fossero in grado di svolgere, in modo responsabile, il loro ruolo e fossero causa di pregiudizio nei confronti dei figli.
La Costituzione (art. 29) “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” e l’”eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Riconosce altresì alla f. la funzione di prendersi cura dei figli, ma prevede che, in caso di incapacità dei genitori, sia la legge a provvedere a che siano assolti i loro compiti (art. 30). Insomma, la f. è considerata un bene e lo Stato si dichiara ben disposto a sostenerla, anche economicamente (art. 31), ma anche pronto ad intervenire in caso di malfunzionamento. Non viene tuttavia precisato il tipo di intervento, se suppletivo o surrogatorio, e ciò vuol dire che si lascia allo Stato la più ampia libertà di manovra. Il problema è che questo principio, di per sé eccellente, è, come vedremo, solo teorico.

10.9. Il paradosso della famiglia
In pratica, nel nostro paese domina la cultura cristiana, la quale tende a vedere nella famiglia un fine irrinunciabile ed eterno, un bene assoluto, senza macchia e senza ombra, che non viene mai meno, non deflette, un’istituzione ai limiti della perfezione, non per niente è un sacramento religioso, fondato sulla volontà divina, che esige un legame indissolubile, «a prescindere» (QUARTANA 1997). I giudizi dei pensatori DR riflettono questo pregiudizio e disegnano il modello di una f. buona per forza. Secondo Friedman, per esempio (ma si potrebbe citare un’infinità di altri autori), la famiglia “è stata sempre e resta oggi l’unità costruttiva della nostra società” (1981: 36). Non si tiene conto che talvolta la famiglia è solo uno spettro e non svolge più alcuna funzione utile né per i suoi membri, né per la società e nemmeno per se stessa come istituzione. Per la DR, anche se la f. è in crisi, anche se non funziona, anche se fa danni, essa va comunque preservata e non se ne devono prevedere e predisporre servizi sostitutivi: sarebbe come dire che bisogna prevedere la surrogazione di un istituto divino!
Si finisce così per travisare la realtà e, quindi, per non prendere nella dovuta considerazione tutte le vittime della famiglia, che finiscono per essere abbandonati al loro triste destino. È il prezzo da pagare all’esaltazione dell’istituto familiare: avvolgere nel silenzio le vittime della f., non svelare la loro esistenza, non impegnarsi in attività di prevenzione. Matura così quello che possiamo chiamare paradosso della famiglia, che consiste nel proclamare i diritti della persona (art. 3 cost.) e nello stesso tempo negarli attraverso tutte le rinunce e le ingiustizie che ineriscono la persona stessa all’interno del proprio nucleo familiare e nei confronti delle quali lo Stato si fa complice.
Le conseguenze di questo atteggiamento di venerazione incondizionata nei confronti della famiglia sono disastrose. Ne menziono alcune.

10.10. Limiti della famiglia
Nella f. domina la logica di gruppo che, alla fine, si traduce in una limitazione della libertà dei singoli membri. In Italia «tengo famiglia» significa sentirsi condizionati in tutte le proprie scelte dai doveri che ci legano ad altri, significa rinunciare alla libertà di sviluppare ed esprimere un proprio pensiero o una propria condotta, per paura che da ciò possa derivare un qualche danno ai propri congiunti. “In Italia la vecchia espressione «tengo famiglia» significa l’impossibilità di cambiamento, di rischio e di ribellarsi al sopruso” (SARACENO 1975: 172). Le esigenze familiari inducono i genitori a non accettare situazioni di rischio, perché, se le cose dovessero andare male, ci andrebbero di mezzo i figli. Perciò spesso si evita di intraprendere nuove strade, di iniziare percorsi nuovi, che, se da un lato possono consentire un aumento delle entrate, dall’altro lato possono portare al fallimento. Così, qualora si avverta l’esigenza di incrementare il reddito, per esempio per la nascita del primo figlio o per l’aumentare del numero dei figli, si preferisce ripiegare nel lavoro «nero», che spesso significa allontanamento eccessivo dalla famiglia, stress, evasione fiscale, diminuzione dei posti di lavoro.
Significa sviluppare lo spirito di solidarietà familiare e di mutuo sostegno, evitare il rischio, diffidare delle novità, perseguire una politica collettivistica, curare un’immagine di gruppo e un patrimonio familiare. Essere «figlio di papà» significa essere favorito nella vita e nella carriera dalla posizione di un padre ricco e influente, trarre vantaggio da una situazione familiare particolarmente fortunata e positiva.
Grazie ai suoi legami indissolubili, la f. accomuna nello stesso destino persone assai diverse fra loro, che risultano condizionate nelle loro libertà e nei loro progetti di vita. Dopo la morte, i genitori lasciano i loro averi ai propri figli e, se non lo fanno, i figli reclamano i propri diritti per via legale, la gente mormora e commenta. Se i genitori hanno bisogno di denaro o di assistenza personale, l’opinione pubblica vuole che siano i figli a rispondere, e così pure la legge. I figli devono soccorrere i genitori bisognosi, e viceversa. Se un padre (o una madre) si ammala gravemente, il progetto di vita del coniuge viene letteralmente sconvolto, quello dei figli anche. La fedina penale (o il successo) di un padre (di una madre o di un figlio) si ripercuote sull’immagine dell’intera famiglia. Se il membro di una famiglia è portatore di gravi handicap, o è oggetto di eventi avversi, o esibisce comportanti stravaganti o patologici, il progetto di vita dei suoi familiari viene alterato.
Vi sono molti genitori che aiutano in vario modo i loro figli ormai adulti. Questi aiuti possono consistere nell’elargizione di denaro, in prestiti, in regali, in contributi per l'acquisto della casa, in servizi, in lasciti ereditari, ecc.. Ma la maggior parte non riceve alcun aiuto consistente dai propri genitori e una minoranza, invece che riceverlo, presta aiuto ai genitori (169.06/105-118). Tutto ciò finisce col diventare un fattore discriminante nei confronti delle giovani coppie, sicché alcune partono favorite, altre svantaggiate, non per merito proprio ma in rapporto ai meriti e alle fortune dei loro ascendenti.
Per preservare il buon nome della famiglia, i genitori si adoperano perché i loro figli non siano da meno dei loro coetanei e, nello stesso tempo, eccellano per intelligenza, saper fare e fortune, dimostrando coi fatti di appartenere ad una famiglia che vale. I figli normali di una famiglia dabbene frequentano le migliori scuole e sono avviati a ricoprire ruoli di alto prestigio e ben remunerati. I figli malati o con quoziente intellettivo inferiore alla media vengono pietosamente occultati agli occhi della gente e fatti seguire con discrezione in Centri privati, affinché l’immagine della famiglia non ne riceva un danno. La famiglia è orgogliosa quando un figlio si mostra capace di incrementare gli averi che ha ricevuto in eredità. Perciò vengono incoraggiati i matrimoni fra persone almeno di pari livello, con lo scopo di preservare e accrescere il patrimonio. Quando le cose vanno bene, nell’arco di poche generazioni, alcune famiglie possono creare dei veri e propri imperi economici, grazie ai quali riescono ad influenzare la politica del proprio paese.
Un’altro limite della f. è la sua inclinazione all’immobilismo. Infatti, la perpetuazione della tradizione e la conservazione del passato costituiscono una delle principali funzioni della famiglia e, se da una parte ciò può svolgere un ruolo positivo per la sopravvivenza, da un’altra parte, può diventare un freno per la società, e questo risulta particolarmente grave in un un’epoca di rapida evoluzione culturale, quale è quella che caratterizza l’ultimo secolo. Ebbene, si deve anche all’azione frenante della f. se oggi la nostra società risulta “appesantita dal proprio passato” (LECLERCQ 1965: 40) e non riesce a stare al passo coi tempi.
Nella f. prende corpo l’idea della proprietà privata patrimoniale e viene legittimata la concentrazione della ricchezza. Il fatto è che la f. distribuisce i beni con logica affettiva e non di merito, dà a chi è imparentato e non a chi merita. Avviene perciò che un membro scarsamente dotato di una famiglia altolocata può ricoprire posti di responsabilità pubblica e creare danni, mentre ad un giovane talentuoso di famiglia povera viene spesso negato il pieno diritto di esprimere e mettere a frutto le sue potenzialità. Dalla diseguaglianza delle opportunità e da una distribuzione dei beni, che è legata più a fattori familiari che a meriti personali, deriva la mancata piena valorizzazione dei talenti individuali e del capitale umano.
La f. condiziona in modo determinante i progetti di vita dei propri membri, interferendo così sia sui processi di libertà personale sia su questioni di giustizia sociale. Le principali vittime sono i bambini e le donne. “La famiglia in tutti i casi resta il luogo centrale delle decisioni di lavoro dei suoi membri: il destino professionale di ognuno, specie per le donne, è «programmato» in relazione alle esigenze e agli obiettivi della famiglia” (PACI 1983: 177). Alla fine, la f. diviene “il luogo centrale di riproduzione della subordinazione femminile” (DAVID, VICARELLI 1983: XI).
Generalmente i bambini non hanno “altro stato sociale che quello dei genitori” (in ANSHEN 1974: 267), e le loro prospettive di vita dipendono dalla classe di appartenenza dei propri genitori. “Finché la nostra struttura familiare rimarrà quella che è, non sarà possibile realizzare, nella corsa al successo personale, l’ideale nazionale di parità di condizioni, che tutti i contendenti, cioè, muovano dallo stesso punto di partenza” (ivi p. 267). È chiaro dunque che la f. rappresenta la principale causa di non attuazione delle pari opportunità, che pure sono previste dalla nostra costituzione (art. 3) e che dovrebbero essere ritenute irrinunciabili in un paese civile e democratico.
La f. può essere anche vista come il luogo in cui vengono assegnati ruoli precostituiti alle persone, con grave pregiudizio per la loro libertà. “L’uomo è coraggioso ed audace, la donna paurosa ed apprensiva, l’uomo è forte, la donna è fragile, l’uomo è interessato alla politica, la donna ai problemi domestici, l’uomo è dominante, autoritario e superiore, la donna è religiosa, capace di sacrificarsi e di sopportare. Ne risulta una contrapposizione che non è solo di interessi e di sfera di attività ma soprattutto di potere. Certi caratteri del ruolo femminile, proprio perché riconosciuti alla donna e dalla donna come impliciti nella sua natura e nel suo modo universale d’essere, ne sanciscono la dipendenza e la subordinazione” (VICARELLI 1980: 267-8). Tutto ciò tradisce “la contraddizione di un sistema che nel riconoscere gli uomini e le donne uguali, continua a richiedere alla donna un ruolo dipendente e subordinato” (VICARELLI 1980: 270).
In ultima analisi, la f. non sembra più in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze dell’uomo d’oggi e questo può spiegare, almeno in parte, il fatto che aumentano i divorzi e le persone che vivono da sole.

10.11. Famiglie povere e ricche
Talvolta però le cose girano male e una famiglia può venirsi a trovare ai livelli più bassi della scala sociale, dove non c’è più niente da perdere, a parte la propria inutile vita. A mala pena i figli frequentano la scuola pubblica e, il più delle volte, si fermano all’obbligo di legge e iniziano un’umile attività di lavoro o imparano a vivere di espedienti. Si sposano all’interno della stessa classe sociale e, quando va bene, ottengono per i loro figli un tranquillo posto statale, che li tira fuori dalla miseria, ma, se va male, si vedono costretti a bussare alle porte di tutte le strutture assistenziali e caritatevoli, come il comune, la chiesa o lo Stato, a cui chiedono un alloggio, capi d’abbigliamento, viveri, servizi, aiuti in denaro e sussidi. In altri termini, devono accettare l’infelice e degradante condizione di essere mantenuti dalla collettività. Le famiglie più povere sognano una società più giusta, ossia più egalitaria, che faccia pagare le tasse in modo proporzionale al reddito e offra più servizi e più lavoro per tutti. In teoria esse dovrebbero sviluppare una mentalità orientata a Sinistra, sensibile al cambiamento e alle riforme. Dovrebbero anche essere più propensi a cercare le innovazioni e ad accettare il rischio. Ma per loro la vita non è facile e, spesso, finiscono per lasciarsi incantare dai bei discorsi e dalle promesse di qualche prestigioso esponente della Destra e ingrossano le fila dei suoi clienti.
Le famiglie più facoltose sviluppano una mentalità di tipo aristocratico e ritengono giusto che il governo preservi le loro fortune e i loro privilegi, mentre si aspettano dal popolo un sentimento di riconoscenza per i loro meriti e per i servigi che essi hanno saputo dare al paese, anche in termini di prestigio a livello internazionale. Esse vogliono abolire la tassa di successione e ridurre al minimo la tassazione sulle proprietà immobiliari e sui profitti che derivano dagli investimenti finanziari. Difendono le tradizioni liberali del proprio paese e vogliono lo status quo. In poche parole, votano a Destra. E lo stesso fanno quelle famiglie della classe media che, pur non trovandosi al vertice della società, aspirano ad arrivarci. I ricchi non amano il rischio della novità, per paura di perdere, e lo stesso fanno i poveri, perché si sentono incapaci di cavalcare il cambiamento. Così, alla fine, la famiglia si riduce ad una sorta di piccola corporazione, tutta intenta alla tutela dei propri interessi e chiusa in se stessa.
La f. finisce così col costituire un ambiente relativamente chiuso, una sorta di gabbia, i cui membri si condizionano reciprocamente in tutti gli aspetti della loro vita: nell’educazione, nella scelta di lavoro, nel matrimonio, nello status sociale. Ma anche nei valori.
Tutte le famiglie difendono qualcosa: quelle ricche il proprio patrimonio e il proprio status sociale, quelle povere la casa popolare e il sussidio di disoccupazione. La f. è come uno Stato nello Stato, con un proprio bilancio economico, una propria politica interna ed esterna, una propria cultura, una propria tradizione, un proprio codice morale, un proprio sistema di valori, cui si sente legata e che la fanno sentire non inferiore a nessun’altra, piuttosto superiore. All’interno di ciascuna f. si coltiva una sorta di nazionalismo in miniatura, che possiamo chiamare “familismo”: la convinzione di essere meglio delle altre o, almeno, non inferiore.
Quello che la f. teme più di tutto è la disgregazione della propria compagine, il fatto che un proprio membro possa imboccare una strada molto diversa rispetto allo standard familiare, che lo faccia apparire stravagante agli occhi dei congiunti. Così, per il buon nome della famiglia, il bambino deve andare a scuola almeno come gli altri, vestire almeno come gli altri, avere la bicicletta, il video-game e il computer, almeno come gli altri. A meno che non viva di rendita, il padre deve svolgere un’attività lavorativa ben remunerata ed evitare di mettersi nelle condizioni di essere declassato o licenziato. Perciò egli si comporterà come vogliono i suoi superiori ed eviterà di assumere atteggiamenti ribelli, che possano mettere in crisi il suo principale ruolo, che è quello di principale fonte economica per la famiglia. La madre è chiamata a svolgere un importante ruolo, che va ad integrare quello svolto dal marito e che comprende la percezione di un reddito, oltre alla cura della casa e dei figli. Insomma, ciascun membro della famiglia è incasellato in suo specifico ruolo ed è chiamato ad interpretare la sua peculiare funzione.
Tra i principali valori trasmessi dalla famiglia, dobbiamo ricordare quelli dell’autorità paterna, della subordinazione della donna, dell’ubbidienza e del conformismo. David Cooper ha osservato che la famiglia non stimola la libertà creativa dei figli, bensì il loro perfetto e atraumatico inserimento nell'ordine sociale dato. Secondo lo studioso, “la prima cosa che si insegna al bambino non è come sopravvivere nella società, ma come sottomettersi ad essa” (COOPER 1972: 29).

10.12. Famiglie come caste
Le famiglie più facoltose sviluppano una mentalità di tipo aristocratico e ritengono giusto che il governo preservi le loro fortune e i loro privilegi, mentre si aspettano dal popolo un sentimento di riconoscenza per i loro meriti e per i servigi che essi hanno saputo dare al paese, anche in termini di prestigio a livello internazionale. Esse vogliono abolire la tassa di successione e ridurre al minimo la tassazione sulle proprietà immobiliari e sui profitti che derivano dagli investimenti finanziari. Difendono le tradizioni liberali del proprio paese e vogliono lo status quo. In poche parole, votano a Destra. E lo stesso fanno quelle famiglie della classe media che, pur non trovandosi al vertice della società, aspirano ad arrivarci. Le famiglie più povere sognano invece una società più giusta, ossia più egalitaria, che faccia pagare le tasse in modo proporzionale al reddito e offra più servizi e più lavoro per tutti. In teoria esse dovrebbero sviluppare una mentalità orientata a Sinistra, sensibile al cambiamento e alle riforme. Dovrebbero anche essere più propensi a cercare le innovazioni e ad accettare il rischio. Ma per loro la vita non è facile e, spesso, finiscono per lasciarsi incantare dai bei discorsi e dalle promesse di qualche prestigioso esponente della Destra e ingrossano le fila dei suoi clienti.
Oltre a rappresentare una palese causa di ingiustizie sociali, l’accumulo di patrimoni familiari, generalmente, non rende felici i membri della f. facoltose. Infatti, come osserva Chiara Saraceno, “È proverbiale nella nostra comunità che praticamente tutte le famiglie siano in lite per questioni di eredità” (1975: 116). La realtà è che l’uomo è felice quando sa di meritare quello che ha e quando sa di vivere in una società giusta. Ebbene, sotto questo aspetto, la famiglia procede in direzione contraria: non riconosce il merito e favorisce l’ingiustizia.
La famiglia tiene unite persone che, allo stato individuale, potrebbero non andare d’accordo e impone a ciascuno dei propri membri di sacrificare la propria individualità in difesa di un superiore interesse di gruppo. Sotto questo aspetto, possiamo dire che la famiglia “oscura la visione del singolo” (LAING 1973: 18). Secondo R.D. Laing, la famiglia è una di quelle istituzioni sociali (insieme alla scuola e alla chiesa) che sovrastano l’individuo, lo coartano in nome di presunti valori indiscutibili ed eterni. Normalmente, l’individuo che voglia affermare il proprio io trova impossibile o inutile o controproducente rivolgersi contro queste istituzioni e quasi sempre finisce per rassegnarsi, vivendo come se il problema non ci fosse. “Amiamo che i cibi ci vengano serviti con una certa raffinatezza, ma non vogliamo saper nulla degli allevamenti di bestiame, dei mattatoi e di quanto accade in cucina. Le nostre città sono allevamenti di bestiame; le famiglie, le scuole, le chiese sono i mattatoi dei nostri bambini; i collegi e le università sono le cucine. Da adulti, nel matrimonio e negli affari, mangiamo il prodotto finito” (LAING 1973: 110). È la politica dello struzzo. Essa ci consente di affrontare situazioni critiche con apparente successo e col minimo dispendio di energie.

9. La sanità

La salute, intesa nel suo senso più lato, può essere definita come una condizione di soddisfacimento dei bisogni della persona, tale da consentirne un ottimale funzionamento biologico e sociale. Una condizione di salute insufficiente si estrinseca in una quantità di disfunzioni che ineriscono tanto alla sfera organica quanto a quella sociale dell’individuo e che finiscono per comprometterne l’effettivo esercizio dei diritti. Di qui l’importanza del servizio sanitario di uno Stato, il cui livello qualitativo può essere utilizzato come la cartina di tornasole per misurare la democraticità di quello Stato.

9.1. La sanità DD: un servizio legato all’informazione
Un paese DD, proprio perché è fondato sulla persona, porrà la salute dei cittadini fra i suoi obiettivi primari. Concretamente, ciò vuol dire realizzare un Sistema Sanitario basato sull’informazione, nella convinzione che solo una Medicina informata offre sufficienti garanzie di serietà, efficacia ed economicità ed è in grado di proporsi come un valido strumento di democrazia. Più precisamente, la Medicina DD si fonda sull’osservazione empirica, sulla raccolta, elaborazione e diffusione di dati, ma anche sulla ricerca, e, di conseguenza, impone a tutto il personale sanitario l’obbligo legale di seguire un metodo di lavoro, le cui caratteristiche minime siano quelle di essere riproducibile da un altro operatore e computerizzabile. A meno che non vi siano denunce o condizioni di palesi irregolarità o danni alle persone, e fino a prova contraria, la CAPS di categoria giudicherà di pari livello tutti i metodi di lavoro e si limiterà a pretendere che ogni operatore sanitario raccolga informazioni sul proprio lavoro e invii periodicamente all’organizzazione di categoria (OC) un resoconto del metodo seguito e dei risultati conseguiti nell’esercizio della propria attività. L’OC si limiterà ad eseguire controlli casuali e a perseguire eventuali scorrettezze. Provvederà, inoltre, a rendere di pubblico dominio i suoi rilievi analitici, statistici e comparativi.

9.2. La sanità DR: un servizio legato al mercato
La Medicina DR segue più le regole del mercato che non quelle dell’informazione e, per conseguenza, bada più all’aspetto economico e commerciale che alla qualità e all’efficienza del servizio sanitario, e se qualcuno nutrisse qualche dubbio in proposito, probabilmente si ricrederà dopo aver letto di questa mia personale esperienza.
Nel 1993, dopo sedici anni di attività ospedaliera, riuscivo a mettere a punto una serie di schede per la raccolta di informazioni inerenti la nostra attività chirurgica. I dati venivano da me raccolti nel corso della normale attività di reparto e senza aggravio di tempi e di costi per la struttura. In pratica, io svolgevo lo stesso lavoro dei miei colleghi, ma impostato in modo informato. Dopo soli due anni, le informazioni da me così raccolte, in modo metodico, consentivano di rilevare alcuni errori (nelle nostre procedure e nell’impiego di farmaci e di materiali) che, se opportunamente corretti, ci avrebbero fatto risparmiare almeno 150 milioni di lire per anno, e senza danni per i pazienti, anzi, con vantaggio per gli stessi, che non dovevano essere sottoposti a trattamenti inutili e potenzialmente rischiosi.
Pensando al favorevole impatto che un’acquisizione del genere avrebbe potuto esercitare sul SSN, in un periodo di ristrettezze economiche e di tagli, provvedevo a diffondere la notizia a tutti i livelli possibili: ne ho parlato coi responsabili dell’Ospedale, dove lavoravo, e nei convegni medici, ho scritto sul Notiziario dell’Ordine dei Medici di Udine (giugno 1995) e sul Messaggero Veneto (17.7.95), ma senza esito alcuno. L’idea di un concreto risparmio economico reso possibile da una Medicina informata sembrava non interessare nessuno. Alla fine (21.4.97), decidevo di dimettermi dal lavoro e indirizzavo una lettera di motivazione ai massimi responsabili della sanità locale, e precisamente: al Direttore Generale, Dott. Paolo Basaglia, al Direttore Sanitario, Dott. Alessandrino Fanzutto, al Primario Ortopedico, Dott. Pietro Commessatti, all’Assessore Regionale, Dott. Elio Degano. Niente. Nessuno ha mai risposto. Nessuno si è mostrato interessato all’idea di una Medicina informata.

8. La televisione (e Internet)

La televisione, come servizio pubblico, ha fatto il suo ingresso nel mondo nel 1947, dapprima negli Usa e poi in tutti gli altri paesi, facendo registrare dovunque un successo strepitoso, a tal punto che oggi, dopo soli sei decenni, si può dire che non c’è casa sulla terra che non abbia una tv. Il segreto di tanto successo è certamente la semplicità dello strumento e soprattutto dalla sua multimedialità. Fornendo audio e video insieme, infatti, la tv può essere seguita con minimo sforzo, “nulla di simile alla fatica della lettura o all’attenzione per seguire la radio” (MENDUNI 1998: 17). Grazie all’occhio elettronico, il telespettatore può gettare il suo sguardo curioso nell’intero ecumene, vedere e ascoltare cose che accadono a grandi distanze, stando comodamente seduto a casa. A causa della sua capillare presenza e della facilità d’uso, lo strumento televisivo ha delle potenzialità enormi, nel senso che può condizionare il livello di informazione e di capacità critica delle persone, pilotare le loro opinioni, i loro gusti e i loro consumi, formare cittadini liberi e democratici, oppure omologati e gregari.

8.1. La televisione
Attualmente la t. è in grado di offrire una serie di programmi, il cosiddetto palinsesto, preventivamente selezionati da un comitato responsabile, che scorrono sullo schermo giorno dopo giorno, secondo l’ordine prestabilito. Al telespettatore è data la facoltà di accendere o spegnere il televisore, di passare da un canale all’altro, scegliere un programma e seguirlo col livello di attenzione che più gli aggrada, ma non gli è data la facoltà di personalizzare l’orario di un programma, di rivederlo o di intervenire su di esso. Il palinsesto fluisce pressoché ininterrottamente e il telespettatore può solo scegliere dove e per quanto tempo orientare la sua attenzione.
Poiché le reti pubbliche percepiscono un canone obbligatorio, devono, almeno in teoria, offrire un servizio ai cittadini, vale a dire devono mandare in onda qualche programma che si ritiene utile e opportuno, indipendentemente dal fatto che piaccia o meno, che sia remunerativo o meno. Per le reti private, invece, è fondamentale che un programma vada incontro ai gusti del maggior numero di persone, perché l’incasso della pubblicità è proporzionale all’audience e, se questa scende al di sotto di un certo limite, la rete rischia di andare in deficit.
Se un utente non desidera essere raggiunto dagli spot ha due possibilità: o non accende il televisore oppure si abbona ad una pay tv, che gli offre in visione «pulita», cioè priva di messaggi pubblicitari, eventi sportivi, film e altro, che vengono trasmessi ad orari prestabiliti. Se uno, invece, vuole vedere un film nell’orario da lui prescelto, o a più riprese, non gli resta che acquistare o noleggiare il relativo DVD. Questa situazione è destinata a cambiare entro il 2012, almeno in Europa, dove si prevede il passaggio dalla t. analogica a quella digitale, che dovrebbe offrire numerosi vantaggi, fra cui una più ampia scelta e varietà di programmi, maggiore qualità dell’immagine, riduzione dei costi e interattività.
Nei confronti di questo mezzo, così onnipresente e intrigante, ma anche così ricco di potenzialità, le opinioni degli studiosi si sono divise. I fautori vedono nella t. un fattore di progresso e civiltà e uno strumento capace di favorire la diffusione dell’informazione, la crescita culturale delle masse, la mobilità sociale verso l’alto e perfino la partecipazione politica; uno strumento, insomma, che “può e deve svolgere un’insostituibile funzione di agenzia culturale per favorire un’eccezionale diffusione delle conoscenze e dei saperi, presupposto di ogni modernizzazione, e antidoto contro il conformismo e il livellamento spirituale dell’opinione di massa alimentati dalla televisione commerciale” (PARASCANDOLO 2000: 145). I detrattori vedono invece nella t. uno strumento di dominio e di manipolazione, manovrato dal potere economico (e dunque non libero) e in grado, come un Grande Fratello, di controllare le persone, di condizionare il loro pensiero e pilotare le loro preferenze, attraverso la mistificazione volontaria della realtà.

8.2. Internet
Qualcosa di simile si può dire anche a proposito di Internet, che alcuni decantano come la più formidabile macchina per la diffusione dell’informazione, della libera discussione e della e-democracy, e altri criticano come una nuova Babele, dove tutti possono esercitare il diritto di parola e il caos regna sovrano, finendo per avvantaggiare, ancora una volta, i gruppi dominanti.

8.3. Giovanni Sartori
In questa sede è mia intenzione di illustrare il ruolo che t. e Internet svolgono pro o contro la democrazia e, a questo scopo, prendo spunto da un libro di Giovanni Sartori di qualche anno fa, intitolato Homo videns, in cui lo studioso sottopone a dura critica ogni tipo di trasmissione di informazioni per immagini. Oggetti dei suoi strali sono la t. innanzitutto, ma anche Internet. Perché questa avversione nei confronti dell’immagine? Ecco, in sintesi, le argomentazioni di Sartori.
Prima della scoperta del linguaggio alfabetico, dice lo studioso, l’uomo primitivo si serviva dei propri sensi come unico strumento di esplorazione e conoscenza. Il nuovo linguaggio altro non era che un insieme di simboli astratti, che venivano usati sia al posto degli oggetti e dei fenomeni realmente osservabili, sia per descrivere emozioni e stati d’animo. Il linguaggio simbolico ha liberato l’uomo dalla stretta dipendenza dall’ambiente naturale e gli ha conferito la facoltà di costruire idee, ipotesi, teorie, dottrine, facendolo entrare nel mondo della cultura tipicamente umana. Nasceva così l’uomo, inteso come «animale simbolico». Il linguaggio scritto può essere visto come la piattaforma sulla quale si è sviluppato il progresso culturale in tutti i settori dello scibile.
Dal reale al simbolico, dunque, dall’immagine concreta al pensiero astratto: questa la direzione dell’evoluzione umana, è questa la chiave che ha reso possibile il passaggio dall’animalità all’umanità, dalla biologia alla cultura, dall’istinto alla ragione. Ora, proprio per il fatto che privilegia l’immagine, la televisione rappresenta un passo indietro in questo percorso evolutivo e, dunque, è da considerare un regresso. In particolare, essa divulga informazioni limitate, frammentate e spesso distorte, e, pertanto, è lungi dal rappresentare un adeguato strumento di cultura. Né si può pensare ad un suo utilizzo parziale, come integrazione della cultura scritta. Tra cultura scritta e cultura audio-visiva, infatti, non c’è complementarietà, ma “soltanto contrasto” (p. 113). Ciò posto, Sartori passa ad illustrare le possibili conseguenze negative di questo regresso.
I “bambini guardano la televisione, per ore e ore, prima di imparare a leggere e scrivere” (p. 14) con grave nocumento per lo sviluppo della loro intelligenza simbolica. La televisione è la loro prima (pessima) maestra. Inoltre, sulla televisione grava la tremenda responsabilità di contribuire pesantemente a formare l’opinione della gente. “Oggi – scrive Sartori – il popolo sovrano «opina» soprattutto in funzione di come la televisione lo induce a opinare” (p. 38). Nemmeno la rete Internet si salva dall’attacco di Sartori. Lo studioso si limita ad accreditare Internet di un “avvenire modesto” (p. 29) sotto il profilo culturale, senza, tuttavia, soffermarsi ad illustrare le ragioni del suo giudizio negativo, che, pertanto, risulta non facile da capire.
Per quel che mi riguarda, condivido la posizione di Sartori a proposito del linguaggio e, in parte, anche la sua avversione nei confronti della televisione. Per tutto il resto, tuttavia, fondamentalmente discordo. Capisco che l’informazione per immagini abbia dei limiti, ma perché mai considerarla incompatibile con la cultura scritta? A me pare piuttosto che si debba parlare di integrazione. Personalmente amo molto la lettura e concedo poco tempo alla tivù eppure, pur avendo divorato numerosi libri sugli animali, ritengo di dover ringraziare la televisione per avermi mostrato tante immagini di animali ripresi nel loro habitat. È vero che la telecamera è limitata e ingannevole. Ma forse che i nostri sensi possono fare di meglio? Il fatto poi che la televisione offre prodotti di non eccelsa qualità non ci autorizza a screditare il mezzo televisivo in quanto tale. Sarebbe come dire: il denaro viene speso male, dunque gettiamolo nella spazzatura. Se invece vediamo la televisione per quella che è, cioè un semplice mezzo di comunicazione, dovremmo conseguire che essa, di per sé, non è né buona né cattiva. Dipende dall’uso che se ne fa.
I bambini, lamenta Sartori, stanno troppe ore davanti al televisore. E che, ciò è forse colpa del televisore? Il televisore non si accende da solo. Sono i genitori che espongono e abbandonano i propri figli davanti allo schermo per le ragioni più disparate. È controproducente attribuire alla televisione responsabilità che appartengono ad altri. È controproducente perché distoglie l’attenzione dalle vere cause del problema, che sono le stesse del fenomeno dei figli abbandonati o affidati ad altri.
Altra responsabilità che Sartori affibbia alla televisione è il condizionamento della pubblica opinione. Ancora una volta lo studioso trascura di prendere in considerazione le vere cause del problema. Il condizionamento dipende dalla formazione culturale dei cittadini. È difficile imporre punti di vista a chi disponga di un solido bagaglio culturale e di una personalità matura. Il potere della televisione è legato alla debolezza culturale della gente e lo si può debellare solo migliorando l’educazione dei singoli individui.
Se posso, in parte, condividere le critiche di Sartori alla televisione, mi sembra del tutto incomprensibile il fatto che lo studioso coinvolga nel suo giudizio negativo anche Internet, quasi che Internet fosse da mettere sullo stesso piano della televisione. Ma noi sappiamo che così non è. Mentre la televisione, infatti, invia messaggi (principalmente immagini) a senso unico in direzione dell’osservatore, che li subisce passivamente; Internet trasmette solo i messaggi (testi oltre che immagini) che l’utente richiede. Nel primo caso il soggetto è passivo, nel secondo protagonista. La differenza è netta. E, infatti, se è un bambino di due anni può seguire la tivù, lo stesso bambino non è capace di «navigare» in Internet. Si tratta di strumenti profondamente diversi. Internet contiene un mare di informazioni di ogni tipo. In questo mare è facile smarrirsi, è vero. Ma si può fare anche un’ottima pesca. E allora, forse è utile tornare al discorso della cultura personale: Internet può arricchire enormemente la persona saggia e avveduta, mentre l’insipiente tende a naufragarvi. Ne consegue che Internet, come e ancor più che la televisione, non dev’essere considerata, di per sé, né buona né cattiva.
Perché allora Sartori si atteggia negativamente nei suoi confronti? Ripeto: in Homo videns le ragioni anti-Internet dello studioso non appaiono chiare ed esaurienti. Mi sorge un dubbio: sarà forse che Sartori teme che la «rete delle reti» possa favorire quella democrazia diretta, che egli detesta? Mi spiego. Attraverso Internet ciascuno di noi può comunicare con chiunque altro da un capo all’altro del mondo stando comodamente seduto a casa propria. Il livello di affidabilità e discrezionalità dello strumento telematico è tale che recentemente in Italia è stato possibile emanare una legge, che abilita Internet nelle transazioni economiche. Ciò vuol dire che se io, che abito a Udine, voglio vendere il mio appartamento di Catania, lo posso fare via Internet. Ora, se posso fare tanto, chi mi impedisce di far correre all’interno della rete la mia opinione su una questione politica che si sta dibattendo? Ecco come Internet può diventare un importante strumento di democrazia.
Ora, se partiamo dall’idea che Sartori ha della democrazia potremmo comprendere il giudizio dello studioso su Internet. Secondo Sartori è inimmaginabile una democrazia senza deleghe e senza partiti, una democrazia che non sia rappresentativa. Ecco le sue stesse parole: “Democrazia vuol dire, alla lettera, «potere del popolo», sovranità-comando del demos. E nessuno contesta che questo sia il principio di legittimità che istituisce la democrazia. Il problema è sempre stato di come e di quanto trasferire questo potere dalla base al vertice del sistema potestativo. Una cosa è la titolarità, e tutt’altra cosa è l’esercizio del potere. Il popolo sovrano è titolare del potere. In che modo è anche in grado di esercitarlo?” (p. 89). Sartori avanza forti dubbi sulle capacità del popolo di prendere decisioni responsabili e, conseguentemente, lo esclude di fatto da quel potere che è disposto ad attribuirgli in teoria. Per lo studioso “il grosso del pubblico non sa quasi nulla dei problemi pubblici. Ogni volta che si va a vedere, si scopre che la base di informazione del demos è di una povertà allarmante, di una povertà che non finisce mai di sorprenderci” (p. 89).
Evidentemente Sartori deve avere un pessimo concetto delle potenzialità intellettive del popolo. Ecco perché, in un periodo in cui molti rivendicano il diritto del popolo di appropriarsi di quella sovranità che gli appartiene, Sartori si mostra preoccupato e scrive: “anche se i poveri di mente e di spirito sono sempre esistiti, la differenza è che in passato non contavano –erano neutralizzati dalla loro dispersione– mentre oggi si rintracciano [grazie a Internet e alla televisione] e, collegandosi, si moltiplicano e si potenziano” (p. 109). Come dire: una volta il popolo era disperso e perciò inoffensivo, ora può comunicare facilmente e perciò è un pericolo. È possibile che, attraverso Internet, Sartori intenda in realtà colpire la democrazia diretta. Lo dimostrerebbero le parole di autentico disprezzo che egli rivolge ai sostenitori di questa, i cosiddetti direttisti. “I «direttisti» – scrive il Nostro – distribuiscono patenti di guida senza chiedersi se i loro patentati sanno guidare” (p. 93). Pertanto, conclude, “chi invoca e promuove un demos che si autogoverna è un truffatore davvero senza scrupoli, o un puro irresponsabile, un magnifico incosciente” (p. 93).
Viene il sospetto che il pensiero di Sartori si debba leggere alla luce della scarsa stima che lo studioso ha dell’uomo comune. Quest’uomo oggi è, nella maggior parte dei casi, incapace di autogovernarsi (concordo con Sartori). Ma perché deve esserlo per definizione? Oggi l’uomo comune potrà anche non avere la patente, né sapere guidare, ma perché negargli il diritto di potersi impegnare allo scopo di conseguire il titolo e le abilità necessarie per guidare? La t. non è il male assoluto, anzi può rivelarsi un formidabile strumento di democrazia, capace di favorire l’informazione e la partecipazione del cittadino alla “pubblica discussione finalizzata a prendere delle decisioni riguardanti la collettività” (CAMPUS, GERSTLÉ 2007: 93).

8.4. Televisione e Internet come strumenti
In conclusione, credo sia possibile affermare che Televisione e Internet sono solo due formidabili strumenti, che possono svolgere un ruolo determinante nella formazione e nel condizionamento della pubblica opinione, del mercato e dei consumi, servendo tanto alle buone cause che alle meno buone, tanto ai regimi dispotici che a quelli democratici, il che basta a giustificare la spaccatura della critica nei suoi confronti. In realtà, a mio parere, i veri imputati non sono Televisione e Internet, ma il modo in cui questi strumenti vengono usati, modo che cambia sensibilmente in un sistema DD piuttosto che in uno DR.

8.5. La televisione e Internet nella DD: due strumenti di informazione, a pagamento
La DD assume che “i mass media possono essere strumenti della democrazia soltanto se i cittadini si trasformano da spettatori/consumatori in attori del processo comunicativo (CAMPUS, GERSTLÉ 2007: 89). Per la DD, la televisione è uno strumento polivalente, che si deve occupare sì d’intrattenimento, ma che dev’essere orientato prevalentemente a fornire informazioni e servizi di pubblica utilità. Ai cittadini dev’essere riconosciuta la facoltà di scegliere l’argomento su cui desiderano informazioni e di partecipare a libere discussione su tutto ciò che è di loro interesse. Le trasmissioni saranno perciò interattive, aperte a tutti e non condizionate dall’audience e da esigenze commerciali, perché i relativi costi verranno assunti dai singoli cittadini che si avvalgono del servizio. Ciò vale anche per i programmi d’intrattenimento. Il principio ispiratore è che ogni servizio ha un costo e dev’essere pagato, secondo l’uso che se ne fa (come avviene per il gas o l’energia elettrica) oppure con una tassa forfettaria, come avviene per il canone. In ogni caso, il cittadino deve sapere quello che spende in cambio di un servizio che lui stesso richiede e fruisce.

8.6. La televisione nella DR: uno strumento della politica …
Uno strumento di comunicazione così pervasivo e invasivo, com’è la televisione, che è in grado di trasmettere in tutte le case i più svariati programmi di intrattenimento e informazione, non poteva non richiamare l’attenzione dei massimi centri di potere economico e politico, che vi hanno proteso i loro tentacoli. Non ci meravigliamo, pertanto, se oggi la t. svolge principalmente una funzione economica e politica. La prima è palese, perché è visibile attraverso gli spot pubblicitari, attraverso i quali le aziende espongono al paese i loro prodotti destinati al consumo e che sono assai noti e familiari al grande pubblico. La funzione politica della t. è meno evidente, e perché, in genere, si presenta camuffata sotto forma di servizi pubblici (telegiornali, dibattiti) e bisogna saper leggere dietro le righe per accorgersi che lo schermo televisivo funge da palcoscenico ai parlamentari, i quali, attraverso questo strumento, parlano e si rendono visibili ai cittadini, ma anche filtrano e controllano l’informazione.
Assai rilevante, per non dire determinante, è il ruolo della t. in occasione delle consultazioni elettorali, grazie alla possibilità di fare oggetto di esposizione mediatica, potremmo dire di pubblicità, questo o quel candidato. Secondo Bentivegna, “si può sostenere che le moderne campagne elettorali possono essere affrontate e talvolta possono portare alla vittoria contando sulle opportunità offerte dal sistema mediale sfruttando tutti gli strumenti utili a «posizionare» il candidato nel mercato elettorale” (1997: 22). Possiamo dire, dunque, che la t. rende i politici protagonisti di una politica-spettacolo, che paga in termini di consenso e di voti. “La campagna elettorale è stata così paragonata a un concorso di bellezza, dove vince chi riesce a sedurre il pubblico” (DELLA PORTA 2001: 122).

8.7. … e dell’economia
In un sistema DR, la televisione non è considerata un servizio per il cittadino, ma principalmente uno strumento d’intrattenimento, la cui funzione è quella di creare audience per fini commerciali. “Che cosa vende esattamente, la TV? Nella sua forma monopolistico-pubblica essa vende, formalmente, un abbonamento, che però è legato non alla fruizione di un contenuto, ma esclusivamente al possesso di un utensile” (ORTOLEVA 1998: 551). Col canone il cittadino non paga un servizio, “ma una vera e propria tassa” (ORTOLEVA 1998: 551). I costi dei programmi vengono addossati agli inserzionisti pubblicitari, ossia alle imprese, che poi si rifanno con la maggiore vendita dei loro prodotti, e quindi sul consumatore. “Di qui la mediocre qualità dei programmi televisivi. Ideati per un pubblico composto da milioni di anonimi consumatori, essi devono di necessità presentare caratteristiche tali da risultare adatti alla psicologia e ai gusti dell’uomo medio” (PELLICANI 1998: 137). Dal momento che le reti televisive sono controllate dal potere politico-economico, è lecito dubitare che esse ci mostrano un quadro fedele della realtà. “Tutto il contrario: è una realtà, quella che scorre davanti allo sguardo distratto del telespettatore, inevitabilmente selezionata, manipolata, costruita; una realtà, insomma, che ha solo la parvenza dell’oggettività” (PELLICANI 1998: 137).
La DR non mostra alcun interesse a far crescere i suoi cittadini e offre spettacoli adeguati ad un pubblico di livello medio-basso, con la conseguenza che “l’industria televisiva è estremamente mediocre, senza alcun riguardo per l’innalzamento del livello culturale e della coscienza civica dei telespettatori. Ciò che finisce per andare in onda è ciò che ha il potere di attrarre il pubblico, vale a dire tutto quello che fornisce in maniera immediata gratificazione, relax, emozioni e fuga dalla realtà; come dire, l’opposto di quei programmi che richiedono attenzione, concentrazione e serietà. L’ossessivo obbiettivo della tv commerciale, oggi, è quello di allevare l’audience per poi venderla agli inserzionisti” (GROSSMAN 1997: 211). Ai cittadini viene solo richiesto di divertirsi e rilassarsi il più possibile. “Non v’è dubbio che uno dei motivi dell’enorme popolarità della televisione è che guardarla non richiede alcuno sforzo. Fra tutte le attività umane, solo il dormire è meno impegnativo” (GROSSMAN 1997: 117).
In sostanza, la t. funziona come qualsiasi altra azienda produttiva e obbedisce alle stesse regole, che sono quelle del mercato. Qual è la merce prodotta? Molti diranno: i programmi. E invece no. La merce prodotta dalla t. è l’audience, ossia i telespettatori. Sono loro che vengono venduti agli inserzionisti. In pratica, attraverso il programma, si adescano i telespettatori e li si conduce davanti alle vetrine mediatiche degli inserzionisti. “Il gestore di una televisione privata, di fatto, è un venditore pubblico. Cioè vende i propri spettatori a quelle aziende che si vogliono far conoscere e vogliono a loro volta vendere i propri prodotti. Più numeroso è il pubblico che si vende, più alto è il prezzo dello spot su quella rete” (GIACALONE 2007: 153). In definitiva, il motore della t. è la pubblicità e la merce di scambio i telespettatori. “Senza la pubblicità, senza l’afflusso di ricchezza che da essa deriva, diminuirebbe notevolmente l’offerta televisiva, il che significa che diminuirebbero i canali fra i quali scegliere, e diminuirebbe la qualità (intesa come rispondenza alle domande del pubblico) dei programmi trasmessi. In una parola, se non ci fosse la pubblicità il popolo telespettatore ne risulterebbe gravemente danneggiato” (GIACALONE 2007: 151-2).
Da quanto abbiamo detto, dovrebbe risultare chiaro che intorno allo strumento televisivo ruotano quattro principali protagonisti, che sono: i proprietari delle reti, gli inserzionisti, i politici e i telespettatori. Adesso è facile capire chi vince e chi perde. Il proprietario della rete è un venditore e deve avere un profitto. Anche gli inserzionisti sono venditori e devono avere un profitto. I politici hanno l’opportunità di costruirsi un’immagine e di catturare consensi, e perciò hanno solo da guadagnarci. Gli unici che non sono venditori e non hanno un’immagine da curare sono i telespettatori, e sono proprio loro che pagano. Infatti, anche se i programmi sostenuti dalla pubblicità commerciale sono, almeno apparentemente, esenti da costi, il cittadino deve mettere in bilancio che potrà pagare un costo quando andrà a comprare gli articoli reclamizzati.

8.8. Aspetti anti-democratici della televisione
Per quel che riguarda l’Italia, occorre ammettere che esiste una grossa discrepanza fra teoria e realtà. Infatti, il monopolio che lo Stato (parlamento, governo, partiti) esercita sulla tv si può giustificare solamente nell’ottica di consentire l’accesso a tutti i cittadini, in accordo con il dettato costituzionale, che afferma: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21). Ma così non è. Non è vero che qualunque cittadino abbia facoltà di manifestare liberamente il proprio pensiero in tutti i mezzi d’informazione pubblica, sostenuti con denaro pubblico. È vero invece che agli organi d’informazione accedono solo soggetti autorizzati, che generalmente fanno parte di gruppi organizzati e istituzioni, e dunque sono facilmente controllabili e ricattabili. Dietro la scelta del monopolio “c’è la concezione paternalistica dello Stato come autorità e dell’informazione come potere. Un potere in grado di condizionare, manipolare, esercitare pressione sull’opinione pubblica” (CHIMENTI 2000: 15).