sabato 29 agosto 2009

2. L’economia

L’economia è la scienza che studia la produzione, la distribuzione, lo scambio e il consumo, la dinamica dei prezzi e della domanda e dell’offerta di beni e servizi (microeconomia). Essa parte dal presupposto che ciascun individuo, produttore o consumatore che sia, persegua i propri interessi in modo razionale ed efficace: il consumatore tenderà a massimizzare la propria utilità (teoria della domanda), il produttore adotterà strategie atte a massimizzare il proprio profitto (teoria dell’offerta). L’e. studia anche i fenomeni dell’occupazione, della libertà di mercato, dell’inflazione, della crescita, degli investimenti, del carico fiscale, del reddito nazionale e del bilancio dello Stato (macroeconomia).
Ci sono almeno due modi di intendere l’economia. Il primo, che si ispira al pensiero marxista, postula che l’intero sistema economico debba pretendere da ognuno secondo le sue capacità e a dare ad ognuno secondo i suoi bisogni. Il secondo modo di intendere l’economia corrisponde alla concezione capitalistica ed è quello in cui “il fine della produzione non è la soddisfazione di bisogni, ma la valorizzazione del capitale” (HELLER 1975: 26). Secondo l’approccio marxista, l’ordine economico dovrebbe ruotare intorno ai bisogni e dovrebbe giustificarsi in virtù di essi. Secondo l’approccio capitalista, l’economia deve semplicemente seguire il libero mercato. Nei paesi comunisti l’economia è pianificata e controllata dallo Stato. Nei paesi capitalisti, invece, la gran parte delle transazioni economiche è operata da imprese private, istituite con finalità di lucro e lasciate libere di competere.

2.1. Storia dell’economia
Dopo i greci, che sono i primi a formulare una teoria economica sociale, per trovare una nuova teoria economica, dobbiamo aspettare l’età moderna, e, precisamente, il XVI-XVII secolo, allorché si sviluppa, nelle città più dinamiche, il cosiddetto mercantilismo, che rompe con gli insegnamenti etici di Aristotele, dei cristiani e del medioevo in generale e introduce nuovi parametri di valutazione, che assegnano alla ricchezza un valore positivo, assoluto e incondizionato, e gettano le basi per lo sviluppo del sistema capitalistico. L’economia mercantilista ritiene che la potenza di uno Stato dipenda dalla ricchezza economica, in particolare da una bilancia commerciale favorevole, dove le esportazioni prevalgano sulle importazioni, e pertanto tende a favorire politiche protezionistiche.
Nel XVIII secolo si afferma il cosiddetto pensiero fisiocratico, il quale, ritiene che l’unica vera fonte di ricchezza risieda nella produzione agricola. Esso mira a conservare i privilegi della classe dei proprietari terrieri e a contrastare l’avanzata del capitalismo mercantile, chiede inoltre l’abbattimento delle barriere doganali e la libera circolazione delle merci.
Nello stesso tempo, si sviluppa anche una teoria capitalistica, orientata ad un libero mercato ritenuto capace di autoregolarsi. È la cosiddetta economia classica, che ha in Adam Smith (1723-90) il suo esponente di maggiore spicco. Lo schema classico parte dalla legge di Say (1776-1832) e cioè dal fatto che l’offerta crei la domanda e attivi il seguente circuito: la produzione genera un reddito; il reddito induce al consumo; il consumo stimola la produzione. Per Adam Smith, come per Mandeville, Montesquieu, Hume e altri, l’uomo è come condotto da una mano invisibile, che, mentre egli individualmente mira al proprio interesse, lo guida, in realtà, senza volerlo, a promuovere gli interessi della collettività. Ne consegue che è bene che ciascuno venga lasciato libero di perseguire i propri interessi, dal momento che ciò torna a vantaggio di tutti. In altri termini, l’egoismo volontario porta a conseguenze inintenzionali vantaggiose per la collettività.
Il XIX secolo registra un decisivo sviluppo dell’economia, che è accompagnato dall’entrata in campo di importanti teorie, come quella marxiana e l’economia marginalista. L’analisi di Marx (1818-83) è stringente. Il valore di una merce dovrebbe essere pari al lavoro necessario per produrla. In un sistema capitalistico, tuttavia, l’imprenditore vi aggiunge una quota per sé, il cosiddetto plusvalore, ossia il proprio profitto. Le conseguenze sono: primo, che ad arricchirsi è solo l’imprenditore; secondo, che si producono più merci di quanto la classe operaia riesca effettivamente ad acquistare; terzo, che il sistema alla lunga non può reggere e va in crisi.
Accanto e successivamente alla teoria marxiana si vanno sviluppando altre teorie, come la cosiddetta economia marginalista o neoclassica, che è ben rappresentata nelle opere di Jevons (1835-1882), Walras (1834-1910) e Menger (1840-1921), o l’economia keynesiana. Il principio marginalista è che il valore di una merce dipende dalla sua disponibilità: più un bene è disponibile, meno ha valore economico. Il marginalismo trasforma la metafora smithiana della mano invisibile in un sistema matematico e fa dell’economia una scienza esatta, autonoma dalla politica e autoreferenziale. Keynes (1883-1946) parte dalla domanda e ribalta lo schema neoclassico: è la domanda che induce a produrre; la produzione genera un reddito; il reddito porterà a consumare. Keynes inoltre sostiene l’opportunità che lo Stato intervenga massicciamente nel mercato.
Tra le teorie economiche più recenti, mi limito a ricordare il liberismo reaganiano, che si basa sul pensiero di economisti come Feldstein (1939), Laffer (1940) e Boskin (1945), presuppone che la riduzione delle imposte conduce non ad una diminuzione, ma ad un aumento delle entrate fiscali, oltre che ad una ripresa dell’economia. È la linea seguita dal governo Berlusconi.

2.2. Economia e democrazia
Ma qual è il sistema economico più congeniale alla democrazia? È meglio il capitalismo o il socialismo? In risposta a questi interrogativi, le opinioni degli studiosi cambiano a seconda dei tempi e delle mode. Fino al 1989 a contendersi il campo erano tre teorie: la prima vedeva nel capitalismo il naturale partner della democrazia, la seconda affermava invece che alla democrazia si addice più il socialismo, la terza sosteneva che non c’è un legame di necessità tra capitalismo, socialismo e democrazia. Dopo la caduta del comunismo sono rimasti sul campo solo due forze, il capitalismo e la DR, che “stanno vivendo un momento unico nella loro storia, in cui di fatto si ritrovano senza concorrenti” (THUROW 1997: 70). Il loro connubio viene abitualmente descritto come armonioso, se non come idilliaco, e si va dicendo che siamo di fronte ad un’accoppiata vincente e inseparabile. “È improbabile che, nei paesi democratici, il capitalismo e l’economia di mercato saranno sostituiti da qualcos’altro […]. Non c’è in vista nessuna alternativa che si possa dimostrare superiore a un’economia prevalentemente di mercato (DAHL 2000: 175-181).
Eppure, almeno in teoria, i princìpi della democrazia che propongono una concezione egalitaria dovrebbero collidere con quelli del capitalismo, in cui domina il valore etico della disuguaglianza. “Democrazia e capitalismo hanno una visione molto diversa della ripartizione del potere. L’una crede in una distribuzione egualitaria del potere politico, «un uomo, un voto», mentre l’altro ritiene che sia dovere dell’individuo economicamente più adatto espellere dal mercato quello inadatto e condannarlo all’estinzione economica” (THUROW 1997: 265). Allora, come stanno le cose? Democrazia e capitalismo sono compatibili o no?

2.3. L’economia DD
Le caratteristiche della DD costituiscono il terreno propizio perché si attui una sintesi ottimale di marxismo e capitalismo, capace di conciliare la necessità di rispondere ai bisogni delle persone e il libero mercato. Ma perché questa sintesi sia compatibile con la democrazia, è necessario che vengano rispettate almeno tre condizioni: 1) che siano rispettate l’uguaglianza d’opportunità fra tutti i cittadini, 2) che siano riconosciuti i diritti inalienabili ad un reddito minimo garantito (RMG) e 3) le naturali differenze fra gli individui. Questi temi sono sviluppati nelle voci «Uguaglianza» e «Diritti», alle quali rimando.
In sostanza, in un sistema DD l’e. deve coniugarsi con i princìpi dell’individualismo, che sono essenzialmente due: dare il massimo agli individui in termini di risorse sostenibili, prendere il massimo dagli individui in termini di capitale umano. Così concepita, l’e. DD si sposa perfettamente con le nuove opportunità di “collaborazione di massa”, che sono offerte dalla rete e che sono in grado di imprimere alla produzione di risorse sempre nuovi e imprevedibili sviluppi (Tapscott, Williams 2007).

2.4. L’economia DR come sistema misto
La DR si lascia guidare più da considerazioni di mercati e di profitti che da questioni di giustizia sociale, sicché i diritti dei cittadini sono, in realtà, sottoposti ad un insieme di poteri, che Fisichella individua nella «bancocrazia», ossia nel potere finanziario, tecnologico e amministrativo. “Nella democrazia il potere del popolo ha sostanzialmente solo l’arma dell’elezione, l’altro potere [quello della bancocrazia] ha risorse plurime, può condizionare, manipolare, controllare i mezzi di comunicazione di massa, esprimersi verso i governi, i parlamenti ma anche verso i governati attraverso gruppi di interesse e di pressione” (1997: 7).
In linea generale, possiamo affermare che i paesi a regime DR fondano le loro politiche economiche e sociali sui supremi valori del capitalismo, ossia sul consumo e sul profitto, che sono considerati fini a se stessi e privi di limiti predeterminati. “La vita organizzata intorno al consumo […] è priva di norme: è guidata dalla seduzione, da desideri sempre maggiori e da capricci volubili, non più da una regolamentazione normativa. Non esistono vicini di casa a fare da punto di riferimento per la propria vita; una società di consumatori è una società di raffronto universale e il cielo è il suo unico limite” (BAUMAN 2002: 80). Insomma, tutta la nostra vita, il nostro lavoro, le nostre abitudini, i nostri affetti, sono subordinati al consumo, così che viene da chiederci “se si abbia bisogno di consumare per vivere o se si viva per consumare” (BAUMAN 1999: 91). Consumi e profitti illimitati costituiscono l’essenza dell’economia capitalistica. Ora, in teoria, il gioco fra consumi e profitti dovrebbe svolgersi in una cornice di liberismo estremo, ossia, dovrebbe soggiacere unicamente alle regole del mercato. In pratica, però, non si conosce un solo paese DR che sia governato secondo una logica esclusivamente di tipo liberista. Perché?
A tavolino, con oltre tre milioni di dipendenti pubblici e il 48% del Pil, la pubblica amministrazione dello Stato avrebbe i mezzi per fare tutto da sé. Ma non è così. “La logica del discorso economico – scrive Sartori – è che l’economia lasciata ai privati è gestita da ciascuno per sé: bene per lui se fa bene, e male per lui se fa male. Invece l’economia pubblica è un’economia gestita da qualcuno per altri, per terzi generalizzati e ignoti, e per ciò stesso un sistema economico irresponsabilizzato: chi lo controlla – il burocrate o il politico di panza – non paga mai di tasca propria, non perde il suo. Nel contesto dell’economia privata chi perde sparisce (e per ciò stesso finisce anche di nuocere); nel contesto dell’economia pubblica chi perde può tranquillamente continuare a perdere (e anche a nuocere) visto che mai è lui che ci rimette” (1993: 308). Le conclusioni che possiamo trarre sono chiare: il mercato lasciato a sé non funziona, lo Stato da solo tende all’inefficienza.
Rimane il sistema misto. La storia insegna che i paesi a regime DR mostrano una certa idiosincrasia tanto alle economie molto centralizzate quanto a quelle di libero mercato, mentre si trovano a proprio agio con sistemi economici di tipo misto. Infatti, osserva Dahl, “tutti i paesi democratici hanno non solo rifiutato un’economia centralizzata in alternativa all’economia di libero mercato, ma anche respinto l’economia strettamente di libero mercato a favore di un’economia mista, in cui gli esiti del mercato vengono modificati significativamente dall’intervento governativo” (2001: 40). Il sistema misto opera in tutti i paesi a regime DR. Almeno esso funziona?

2.4.1 Limiti del capitalismo misto
Fra i tratti più evidenti del capitalismo «misto» ne dobbiamo menzionare almeno due, che sono di grande rilevanza per l’andamento dell’economia: il primo è che il reddito da lavoro non è commisurato alle reali capacità produttive individuali, in quanto manca uno strumento serio di valutazione del merito individuale; il secondo è che è tollerata una forbice reddituale, tra il primo e l’ultimo dei cittadini, che è dell’ordine delle migliaia di volte. Insomma, non solo non viene premiato il merito, ma si consente che vi siano persone che percepiscono in un mese 500 euro, altre un milione di euro, sanzionando una differenza che non tiene in minimo conto il fatto che “tra gli esseri umani il talento non è distribuito in modo così dissimile da giustificare l’ineguaglianza che caratterizza la distribuzione dei redditi da lavoro” (THUROW 1997: 193). Succede dunque che, il capitalismo DR genera “una ripartizione della ricchezza in cui le differenze sono molto più accentuate che in qualsiasi ripartizione misurabile del talento o di altre caratteristiche umane conosciute” (THUROW 1997: 266).
Le conseguenze del capitalismo misto si stagliano chiare dinanzi ai nostri occhi “l’1% della popolazione possiede il 40% della ricchezza netta totale, ma non possiede certo il 40% del quoziente d’intelligenza totale. Non esistono individui che abbiano un quoziente d’intelligenza migliaia di volte più alto di altri (basta il 36% in più della media per avere un QI classificabile nella fascia dell’1% superiore)” (THUROW 1997: 266).
Possiamo ricapitolare quanto espresso in questo paragrafo e in quello precedente come segue. Lo Stato DR non pone limiti ai consumi e ai profitti, accetta differenze reddituali che non rispecchiano le naturali differenze fra gli individui, sperpera molto denaro pubblico per tenere in piedi una pubblica amministrazione relativamente inefficiente, non retribuisce i lavoratori in base al merito, né prevede solo redditi da lavoro: Ma ciò che è più grave è che la DR non valorizza adeguatamente il capitale umano, e il deficit di bilancio che caratterizza quasi tutti i paesi DR è lì a dimostrare che, oltre ad essere iniquo, lo Stato DR ha anche evidenti limiti di produttività.

Nessun commento:

Posta un commento