sabato 29 agosto 2009

10. La famiglia

Essenzialmente, la f. è l’insieme di soggetti che procreano e si prendono cura della prole. Queste due funzioni possono anche essere svolte separatamente, ma sono entrambe necessarie perché si possa parlare di famiglia. La famiglia naturale si fonda sul legame sessuale di due o più soggetti di sesso diverso e sul legame parentale genitori/figli, ed ha, come scopo immediato, la risposta ai bisogni dei singoli individui-membri e, come scopo ultimo, la riproduzione della specie. Ai fini naturali non fa differenza se i genitori siano formati da una semplice coppia o da più figure maschili e femminili, né importa che la loro unione sia formalizzata da un contratto legale o resa indissolubile da un sacramento. Dal punto di vista naturale quello che importa è che qualcuno generi dei figli e che alcuni di questi possano sopravvivere fino a quando non potranno riprodursi a loro volta.
L’inizio dell’atto generativo corrisponde all’unione dei gameti maschile e femminile, che di norma, ma non necessariamente, avviene con l’atto sessuale e si conclude dopo nove mesi col parto e con la presa in carico del bambino. Che a prendersi cura del bambino sia la madre biologica, o una balia, o la comunità (ad esempio, il kibbutz), o una coppia di lesbiche, o la «lupa» di Romolo e Remo, è un elemento accessorio, così come sono accessori i modelli di f. che si sono affermati nelle diverse epoche e nei diversi luoghi e di cui la f. nucleare costituisce solo un esempio. Gli elementi accessori che intervengono nel processo riproduttivo sono tali e tanti e si correlano in modo così variabile che, per quanto possa sembrare sorprendente, ad oggi “non vi è un pieno accordo nella definizione di famiglia” (BARBAGLI 1993: 776).
Nonostante il fatto che oggi, come vedremo, la f. manifesti vistosi segni di crisi, non mancano gli estimatori ad oltranza, i sostenitori incondizionati, soprattutto in ambito religioso, ma non solo. La Anshen, per esempio. difende la famiglia e vede in essa “la più elementare e universale forma di società, che contiene tutte le molteplici potenzialità per l'esplicarsi della personalità umana” (1974: 27). Nonostante la perdita di molte tradizionali funzioni, per Linton “la famiglia rimane ancora lo strumento migliore per la cura e specialmente per la socializzazione del bambino” (in ANSHEN 1974: 53).

10.1. Funzioni della famiglia
La famiglia si è affermata in natura come strumento finalizzato alla riproduzione e alla sopravvivenza della specie. Per milioni di anni essa ha provveduto a soddisfare i bisogni della prole fino al raggiungimento dell’età adulta che, spesso, corrisponde alla pubertà. Quando il bambino raggiunge questo traguardo, i genitori lo allontanano e, da quel momento, egli deve provvedere a se stesso. All’interno della famiglia la divisione del lavoro è limitata alla funzione riproduttiva e il peso maggiore della cura dei figli grava sulla madre, almeno fino a quando il bambino ha bisogno del suo latte. Dopo lo svezzamento, i bambini cominciano a imitare i grandi nell’attività di raccolta del cibo, ma possono contare sull’aiuto e sull’offerta di cibo da parte dei genitori, che decresce col passare del tempo, fino a cessare del tutto con la pubertà. La regola è che, nei limiti delle proprie possibilità, ciascuno consuma ciò che raccoglie e, quando diviene adulto, ciascuno si cerca il suo partner e forma la sua famiglia.
Alla f. possono essere attribuite due principali funzioni: provvedere ai bisogni biologici ed educare all’autonomia i propri piccoli. La famiglia è innanzitutto l'area in cui vengono soddisfatti i bisogni primari dell'uomo e della donna, "tutti quei bisogni che l'uomo e la donna condividono con i primati" (ACQUAVIVA 1981: 5). Ma, se la f. si limita ai bisogni biologici e trascura di rispettare i tempi dei bambini in relazione alla loro richiesta di autonomia, essa non ha svolto per intero il proprio dovere.
“Il genitore cammina per la strada stringendo la mano del suo bambino. Ad un certo punto c’è una necessaria rottura di reciprocità – il genitore stringe la mano del bambino, ma questi non stringe più la mano del genitore. Per una sottile alterazione cinesica della pressione della mano, il bambino di tre o quattro anni indica al genitore che vuole fare da solo la propria strada nel proprio tempo. Il genitore può scegliere tra il rafforzare la stretta o correre quello che gli hanno insegnato essere un grosso rischio – permettere cioè che il figlio lo lasci nel momento scelto dal bambino stesso e non in quello stabilito dal genitore o dalla società” (COOPER 1972: 21). Così è sempre stato sin dalle più remote origini dell’homo, ma, nel corso del tempo, è cambiato il modo in cui la f. ha interpretato questo ruolo.

10.2. La famiglia nella storia
Con le guerre di conquista e l’affermazione della proprietà privata si è avvertita la necessità di legalizzare la famiglia ed elevarla a soggetto giuridico, così che il patrimonio potesse essere trasmesso in eredità ai discendenti secondo la legge. Sotto il profilo legale, si chiama f. il gruppo che la legge riconosce strettamente imparentati e, in quanto tali, soggetti di diritti e doveri reciproci. L’evoluzione culturale ha contribuito a dare alla famiglia forme e significati diversi, fino a stravolgere le sue connotazioni primigenie. Oggi abbiamo famiglie composte da: una sola persona, una coppia eterosessuale con figli nati da seme di donatori o in provetta, una coppia di gay o di lesbiche, un solo adulto con figli adottivi, piccole comunità senza legami di sangue, confraternite, sodalizi, che si conducono in modo «familiare», e via dicendo. Sotto il profilo culturale, la f. è un gruppo promiscuo di persone che si riconoscono strettamente imparentate, anche se non lo sono di fatto, e si comportano come se lo fossero.
Il principio della parentela allargata, sui cui si è fondata la famiglia sin dalle epoche più antiche e fino all’età medievale, ha cominciato a declinare a partire dal XVI secolo, a favore di un nuovo soggetto, la famiglia nucleare, che ha iniziato la sua ascesa, associandosi ad un rafforzamento del ruolo del padre e dei rapporti di autorità. “Durante il periodo tra il 1500 e il 1660 vi sono prove inconfutabili della ferma determinazione di spezzare la volontà del bambino e di rafforzare la sua totale subordinazione all’autorità dei più anziani e dei superiori, in particolare dei suoi genitori” (in ROSENBERG 1979: 47). “L’importanza attribuita alla disciplina famigliare e la completa subordinazione del figlio trovarono espressione nelle manifestazioni di deferenza particolarmente vistose che i figli erano tenuti a tributare ai genitori.... Ci si aspettava che i figli, anche da adulti, si togliessero il cappello al cospetto dei genitori, e le figlie avrebbero dovuto stare in piedi in presenza della madre” (ib. p. 53). “Era una società veramente autoritaristica, in cui la libera espressione della volontà non sarebbe stata tollerata” (ib. p. 56).
Fino agli inizi del XX secolo, era opinione diffusa che bisognasse essere severi con i figli piccoli per abituarli a ubbidire e stare sottomessi da grandi. “La giustificazione principale delle eccezionali misure adottate per spezzare la volontà del figlio fin dall’inizio era che più tardi egli avrebbe accettato con rassegnazione passiva le decisioni dei suoi genitori nelle due scelte di maggiore importanza della vita di ogni uomo. Erano i genitori a decidere, tenendo conto innanzitutto degli interessi della famiglia, quale dei figli dovesse sposarsi e quale dovesse essere avviato alla carriera ecclesiastica, o nella magistratura, nel commercio o in qualche altra occupazione” (ivi p. 58).
“Alcune testimonianze ci suggeriscono che, nel XVI secolo, andava sviluppandosi un’analoga tendenza all’autoritarismo nei rapporti fra marito e moglie” (ivi p. 64). “Evidentemente le donne non erano persone libere, e quindi non potevano essere chiamate a votare più di quanto non lo fossero i bambini o i servi di casa” (ivi p. 65). Questa condizione era approvata dalla chiesa, che vedeva nell’obbedienza “il primo requisito per un matrimonio felice e cristiano” (ivi p. 68).

10.3. La famiglia e lo Stato
In generale, il rapporto fra l’individuo e lo Stato non si svolge in modo diretto, ma attraverso una qualche istituzione intermedia, fra cui un ruolo fondamentale è interpretato dalla famiglia. La f. è dunque un intermediario privilegiato tra lo Stato e i cittadini, ma questa funzione varia a seconda che lo Stato eroghi servizi eccellenti o modesti. Se lo Stato non è in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini, è la famiglia che deve farsi carico di questa funzione e deve farlo nelle nuove condizioni offerte dalla società civile: la principale differenza è che i figli continuano a far parte della famiglia anche quando sono divenuti adulti e hanno formato una loro famiglia, e perfino se hanno cambiato residenza e si sono insediati a grande distanza dai consanguinei. Se invece lo Stato è in grado di surrogare validamente la famiglia, in questo caso i genitori, in special modo la donna, possono attuare in piena libertà il proprio progetto di vita. In uno Stato efficiente, la f. dovrebbe limitarsi a svolgere la funzione sessuale-riproduttiva, in un modo da preservare la libertà dei singoli membri che la compongono. La domanda che ci poniamo è la seguente: ha ancora senso oggi il ruolo centrale che la famiglia svolge nel contesto sociale?

10.4. La famiglia nell’ultimo secolo: un soggetto in crisi
Questo modello di f. ha subito importanti trasformazioni ad iniziare dall’epoca della prima guerra mondiale, quando l’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro si è accompagnata ad un significativo calo della natalità ed ha aperto la questione di chi si dovesse occupare dei figli mentre le madri erano assenti per lavoro. Si sono così affermate nuove figure, come i nonni o le baby-sitter, e nuove istituzioni, come gli asili nido e le scuole a tempo pieno. Grazie anche all’aumentata facilità di viaggiare e di spostarsi, molti giovani hanno scelto di studiare o lavorare lontano da casa. Se a ciò si aggiunge la diffusione della televisione, che assorbe una consistente parte della giornata ad una grande massa di persone, si comprende la tendenza dei figli a sfuggire al controllo dei genitori e intraprendere indirizzi imprevedibili, con aumento del rischio di incomprensioni e conflitti, che sono resi più frequenti a causa delle aumentate esigenze delle persone. Nello stesso tempo, grazie all’indipendenza economica, le donne lavoratrici chiedono più libertà e condizioni di parità nei confronti dei coniugi, e questo porta all’affermazione dell’istituto del divorzio. Scossa da tutte queste trasformazioni, la famiglia entra “in una situazione di crisi” (BERGER 1977: 131), che è alimentata dal dubbio che essa non sia più all’altezza dei compiti che ha svolto nel passato, né sia più il luogo privilegiato della realizzazione personale, com’era sembrata esserla un tempo.
Oggi, stiamo assistendo ad una progressiva perdita di funzioni della famiglia. “Le sue funzioni educative, di socializzazione, di assistenza, sono in gran parte cedute allo Stato, o ad apparati pubblici e semipubblici” (MANCINA 1981: 54). Secondo Talcott Parsons (1902-79), la famiglia conserva solo funzioni di socializzazione, che comprendono: l’educazione dei bambini ad accettare e interiorizzare le regole sociali e la stabilizzazione nell’adulto dei processi educativi iniziati nell’infanzia (1965, 1987).
Una delle principali cause di crisi della f. è che, almeno sotto il profilo dell’analisi economica, i figli sono diventati “un bene di consumo di lusso il cui prezzo è in rapida crescita” (THUROW 1997: 35) e non vengono più percepiti dai genitori come un vantaggio, ma come un onere. Psicologicamente questo può agire da deterrente per la funzione riproduttiva della coppia, specie in un periodo dominato da un elevato standard di esigenze, dalla precarizzazione del lavoro e dall’insicurezza del mercato, tutti fattori che fiaccano la volontà della coppia di affrontare i propri impegni genitoriali e favoriscono per converso comportamenti di tipo eudemonistico, che mettono in primo piano la realizzazione del piano di vita della persona, e non più il suo spirito di abnegazione.
È anche in quest’ottica che va interpretato il crescente interesse della donna di affermarsi professionalmente e di partecipare alla vita produttiva. E allora, delle due l’una: “o si sacrifica la famiglia per salvare la professione, o si rinuncia alla professione per dedicarsi alla famiglia” (TESTA 1978: 127). La terza soluzione, cioè salvare l’una e l’altra, sembra insostenibile. Ma, a mio parere, è insostenibile solo se pretendiamo di salvaguardare le prerogative della famiglia tradizionale, ovverosia se si vuole che la madre continui ad occuparsi a tempo pieno dei propri figli. Diventa invece sostenibile a condizione che la donna accetti di pagare un costo personale (una certa discriminazione nel mondo del lavoro a causa del suo essere donna) e riceva aiuti su più fronti (licenza di assentarsi dal lavoro per gravidanza o maternità, asili nido, baby-sitting, aiuto dei nonni, scuole a tempo pieno), ma, così facendo, viene a declinare il ruolo centrale e quasi esclusivo che la tradizione ha assegnato alla «madre». Insomma, la donna può conciliare i suoi due opposti desideri, di realizzarsi come madre e come soggetto politico, solo a condizione di accettare qualche limitazione in ambito lavorativo e, soprattutto, un sensibile ridimensionamento del suo ruolo di madre, il che equivale ad attuare una profonda trasformazione della famiglia tradizionale.

10.5. Verso una nuova famiglia
Ora, se si tien conto che, insieme alla scuola, la famiglia è il principale veicolo formativo dell’individuo, se ne deve trarre la conclusione che le sue condizioni di crisi generano sofferenza nell’intero sistema sociale e devono indurre ogni governo ad attuare politiche di ampio respiro per la famiglia, Ma cosa fa, e cosa può fare, concretamente uno Stato nei confronti della famiglia? Lo Stato può agire in più direzioni: può decidere di sostenere e coadiuvare la f. nei suoi difficili e delicati compiti educativi, oppure può addossare interamente su di essa il peso della responsabilità della crescita dei figli; può approntare dei validi servizi sostitutivi, ai quali ricorrere nel caso in cui la f. mostrasse evidenti carenze e disfunzioni, oppure considerarla come l’unica istituzione in grado di prendersi cura dei figli. Uno Stato può, o non può, avere il coraggio di ammettere che la f. naturale, centrata sulla madre, può o deve essere sostituita da una nuova famiglia, che possiamo chiamare «sociale», che è centrata su più figure e sul gruppo dei pari, un po’ com’è avvenuto all’interno dei kibbutzim israeliani (cf. BETTELHEIM 1977), in cui la donna ha barattato il proprio modello tradizionale di madre per acquistare la piena parità con l’uomo e il massimo grado di realizzazione professionale.
La nuova «famiglia sociale» sembra rispondere meglio alle esigenze dei tempi moderni, in cui risulta cambiato non solo il ruolo della madre, ma anche quello dei figli. “Mentre prima il bambino era un bene individuale, sul quale la famiglia contava per la propria sopravvivenza, ora è un bene sociale, una ricchezza della quale tutta la collettività deve farsi carico perché tutta la collettività ne trae beneficio” (AA.VV. 1981: 136-7). Alla fine, uno Stato dovrà essere valutato in ordine alla politica per la f.

10.6. Un modello di «famiglia sociale»: il kibbutz
I kibbutz si sono assunta la maggior parte delle funzioni della famiglia e hanno avocato a sé la responsabilità della cura fisica e dell'allevamento dei bambini, riducendo in tal modo gli obblighi e i legami dei genitori (SARACENO 1975: 236-273). “Fondamentalmente i bambini appartengono alla comunità nel suo insieme" (SARACENO 1975: 238). Ma il legame con la famiglia non è abolito. "I bambini incontrano i propri parenti e fratelli nelle ore libere e passano i pomeriggi e la prima parte della serata con loro; al sabato e nei giorni di festa stanno per la maggior parte del tempo con i genitori...” (SARACENO 1975: 237). “L'estrema limitazione delle funzioni della famiglia nella sfera del mantenimento e della socializzazione dei bambini non ha condotto alla distruzione della solidarietà familiare. Paradossalmente, la riduzione degli obblighi ha rafforzato piuttosto che indebolito il rapporto genitori-figli e ha aumentato l'importanza dei legami emotivi tra loro” (SARACENO 1975: 241).

10.7. La famiglia DD
Il presupposto teorico è che, con la famiglia, la natura non abbia inteso selezionare un essere collettivo allo scopo di superare l’essere individuale, ma, più semplicemente, abbia voluto tutelare meglio l’individuo, offrendogli un efficace strumento per la sua sopravvivenza. Il fine è l’individuo, non la famiglia, ed è al primo che bisogna pensare, non alla seconda. La DD assume che è la famiglia al servizio dell’individuo, e non viceversa, e ritiene che la famiglia debba svolgere la preziosa e irrinunciabile funzione di contribuire a formare cittadini liberi e responsabili. Di conseguenza, essa attua una politica di sostegno per le coppie in procinto di sposarsi e per i genitori, che comprende servizi, corsi formativi e assistenza psicologica. “Mentre prima il bambino era un bene individuale, sul quale la famiglia contava per la propria sopravvivenza, ora è un bene sociale, una ricchezza della quale tutta la collettività deve farsi carico perché tutta la collettività ne trae beneficio” (BELOTTI 1981: 136-7).
La DD parte dall’assunto che la famiglia biologica non è necessaria per uno sviluppo armonioso del bambino, in ciò confortata dal fatto che le allarmanti conclusioni di Bowlby riguardanti i gravi effetti sul bambino derivanti dalla separazione definitiva dalla madre, sono state smentite dagli studi successivi (cfr. RUTTER 1973). Pertanto, la famiglia biologica può e deve essere surrogata da adeguati servizi predisposti dallo Stato.
La DD è anche convinta che “far venire al mondo un bambino senza avere ragionevoli prospettive di potere non solo procurargli alimento per il corpo, ma istruzione e esercizio per la mente, è un crimine morale, sia contro la sfortunata prole che contro la società” (MILL 1997b: 121). A tale scopo, essa attua una politica adeguata a favorire la paternità responsabile e tale da garantire un lavoro per tutti e un RMG di buon livello.
Tuttavia, la DD non può non prendere atto che non sempre la famiglia costituisce un organo positivo per la salute fisica e psichica dei propri membri, ma che talvolta essa è causa di problemi insuperabili e di molteplici disfunzioni, ad esempio, una scarsa compatibilità fra i partner della coppia, o fra genitori e figli, crisi finanziarie, malattie, infortuni, disturbi psicologici o psicotici, situazioni troppo difficili da affrontare, e via dicendo. Qualunque ne sia la ragione, una disfunzione familiare può arrecare danni irreparabili per gli individui, particolarmente per i membri più deboli e vulnerabili, per i quali la f. può diventare un luogo di sofferenza e un ostacolo sia per la propria crescita che per il proprio progetto di vita.
Per uno Stato DD queste evenienze sono intollerabili ed è allo scopo di minimizzarle che esso predispone efficienti servizi di supporto per i soggetti che soffrono all’interno delle proprie mura domestiche e, limitatamente ai casi in cui non si intravedono soluzioni, appronta strumenti di surrogazione della famiglia stessa. Insomma, la f. è un mezzo e, quando il mezzo dimostri di non funzionare e appaia impossibile ripararlo, non si deve esitare a cambiarlo, se si vuole evitare che faccia danni alle persone.

10.8. La famiglia DR (il caso Italia)
In Italia continuiamo a rapportarci alla f. come se essa non avesse subito perdite di funzioni, come se le madri avessero mantenuto il loro ruolo centrale tradizionale, come se tutte le altre figure che, a vario titolo, affiancano la madre nella cura dei bambini, non esistessero. Continuiamo, insomma, a descrivere una f. che non c’è e, così facendo, manchiamo di utilizzare tutto il potenziale delle «altre» figure materne. Noi non vediamo, non vogliamo vedere, la nuova «famiglia sociale», che è fatta di nonni, di volontari e di figure professionali, ma ci ostiniamo a vedere solo la madre (e, in parte, anche il padre), perdendo così l’opportunità di ricorrere all’apporto della «famiglia sociale», che potrebbe essere prezioso tutte le volte in cui, per un motivo o per l’altro, i genitori biologici non fossero in grado di svolgere, in modo responsabile, il loro ruolo e fossero causa di pregiudizio nei confronti dei figli.
La Costituzione (art. 29) “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” e l’”eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Riconosce altresì alla f. la funzione di prendersi cura dei figli, ma prevede che, in caso di incapacità dei genitori, sia la legge a provvedere a che siano assolti i loro compiti (art. 30). Insomma, la f. è considerata un bene e lo Stato si dichiara ben disposto a sostenerla, anche economicamente (art. 31), ma anche pronto ad intervenire in caso di malfunzionamento. Non viene tuttavia precisato il tipo di intervento, se suppletivo o surrogatorio, e ciò vuol dire che si lascia allo Stato la più ampia libertà di manovra. Il problema è che questo principio, di per sé eccellente, è, come vedremo, solo teorico.

10.9. Il paradosso della famiglia
In pratica, nel nostro paese domina la cultura cristiana, la quale tende a vedere nella famiglia un fine irrinunciabile ed eterno, un bene assoluto, senza macchia e senza ombra, che non viene mai meno, non deflette, un’istituzione ai limiti della perfezione, non per niente è un sacramento religioso, fondato sulla volontà divina, che esige un legame indissolubile, «a prescindere» (QUARTANA 1997). I giudizi dei pensatori DR riflettono questo pregiudizio e disegnano il modello di una f. buona per forza. Secondo Friedman, per esempio (ma si potrebbe citare un’infinità di altri autori), la famiglia “è stata sempre e resta oggi l’unità costruttiva della nostra società” (1981: 36). Non si tiene conto che talvolta la famiglia è solo uno spettro e non svolge più alcuna funzione utile né per i suoi membri, né per la società e nemmeno per se stessa come istituzione. Per la DR, anche se la f. è in crisi, anche se non funziona, anche se fa danni, essa va comunque preservata e non se ne devono prevedere e predisporre servizi sostitutivi: sarebbe come dire che bisogna prevedere la surrogazione di un istituto divino!
Si finisce così per travisare la realtà e, quindi, per non prendere nella dovuta considerazione tutte le vittime della famiglia, che finiscono per essere abbandonati al loro triste destino. È il prezzo da pagare all’esaltazione dell’istituto familiare: avvolgere nel silenzio le vittime della f., non svelare la loro esistenza, non impegnarsi in attività di prevenzione. Matura così quello che possiamo chiamare paradosso della famiglia, che consiste nel proclamare i diritti della persona (art. 3 cost.) e nello stesso tempo negarli attraverso tutte le rinunce e le ingiustizie che ineriscono la persona stessa all’interno del proprio nucleo familiare e nei confronti delle quali lo Stato si fa complice.
Le conseguenze di questo atteggiamento di venerazione incondizionata nei confronti della famiglia sono disastrose. Ne menziono alcune.

10.10. Limiti della famiglia
Nella f. domina la logica di gruppo che, alla fine, si traduce in una limitazione della libertà dei singoli membri. In Italia «tengo famiglia» significa sentirsi condizionati in tutte le proprie scelte dai doveri che ci legano ad altri, significa rinunciare alla libertà di sviluppare ed esprimere un proprio pensiero o una propria condotta, per paura che da ciò possa derivare un qualche danno ai propri congiunti. “In Italia la vecchia espressione «tengo famiglia» significa l’impossibilità di cambiamento, di rischio e di ribellarsi al sopruso” (SARACENO 1975: 172). Le esigenze familiari inducono i genitori a non accettare situazioni di rischio, perché, se le cose dovessero andare male, ci andrebbero di mezzo i figli. Perciò spesso si evita di intraprendere nuove strade, di iniziare percorsi nuovi, che, se da un lato possono consentire un aumento delle entrate, dall’altro lato possono portare al fallimento. Così, qualora si avverta l’esigenza di incrementare il reddito, per esempio per la nascita del primo figlio o per l’aumentare del numero dei figli, si preferisce ripiegare nel lavoro «nero», che spesso significa allontanamento eccessivo dalla famiglia, stress, evasione fiscale, diminuzione dei posti di lavoro.
Significa sviluppare lo spirito di solidarietà familiare e di mutuo sostegno, evitare il rischio, diffidare delle novità, perseguire una politica collettivistica, curare un’immagine di gruppo e un patrimonio familiare. Essere «figlio di papà» significa essere favorito nella vita e nella carriera dalla posizione di un padre ricco e influente, trarre vantaggio da una situazione familiare particolarmente fortunata e positiva.
Grazie ai suoi legami indissolubili, la f. accomuna nello stesso destino persone assai diverse fra loro, che risultano condizionate nelle loro libertà e nei loro progetti di vita. Dopo la morte, i genitori lasciano i loro averi ai propri figli e, se non lo fanno, i figli reclamano i propri diritti per via legale, la gente mormora e commenta. Se i genitori hanno bisogno di denaro o di assistenza personale, l’opinione pubblica vuole che siano i figli a rispondere, e così pure la legge. I figli devono soccorrere i genitori bisognosi, e viceversa. Se un padre (o una madre) si ammala gravemente, il progetto di vita del coniuge viene letteralmente sconvolto, quello dei figli anche. La fedina penale (o il successo) di un padre (di una madre o di un figlio) si ripercuote sull’immagine dell’intera famiglia. Se il membro di una famiglia è portatore di gravi handicap, o è oggetto di eventi avversi, o esibisce comportanti stravaganti o patologici, il progetto di vita dei suoi familiari viene alterato.
Vi sono molti genitori che aiutano in vario modo i loro figli ormai adulti. Questi aiuti possono consistere nell’elargizione di denaro, in prestiti, in regali, in contributi per l'acquisto della casa, in servizi, in lasciti ereditari, ecc.. Ma la maggior parte non riceve alcun aiuto consistente dai propri genitori e una minoranza, invece che riceverlo, presta aiuto ai genitori (169.06/105-118). Tutto ciò finisce col diventare un fattore discriminante nei confronti delle giovani coppie, sicché alcune partono favorite, altre svantaggiate, non per merito proprio ma in rapporto ai meriti e alle fortune dei loro ascendenti.
Per preservare il buon nome della famiglia, i genitori si adoperano perché i loro figli non siano da meno dei loro coetanei e, nello stesso tempo, eccellano per intelligenza, saper fare e fortune, dimostrando coi fatti di appartenere ad una famiglia che vale. I figli normali di una famiglia dabbene frequentano le migliori scuole e sono avviati a ricoprire ruoli di alto prestigio e ben remunerati. I figli malati o con quoziente intellettivo inferiore alla media vengono pietosamente occultati agli occhi della gente e fatti seguire con discrezione in Centri privati, affinché l’immagine della famiglia non ne riceva un danno. La famiglia è orgogliosa quando un figlio si mostra capace di incrementare gli averi che ha ricevuto in eredità. Perciò vengono incoraggiati i matrimoni fra persone almeno di pari livello, con lo scopo di preservare e accrescere il patrimonio. Quando le cose vanno bene, nell’arco di poche generazioni, alcune famiglie possono creare dei veri e propri imperi economici, grazie ai quali riescono ad influenzare la politica del proprio paese.
Un’altro limite della f. è la sua inclinazione all’immobilismo. Infatti, la perpetuazione della tradizione e la conservazione del passato costituiscono una delle principali funzioni della famiglia e, se da una parte ciò può svolgere un ruolo positivo per la sopravvivenza, da un’altra parte, può diventare un freno per la società, e questo risulta particolarmente grave in un un’epoca di rapida evoluzione culturale, quale è quella che caratterizza l’ultimo secolo. Ebbene, si deve anche all’azione frenante della f. se oggi la nostra società risulta “appesantita dal proprio passato” (LECLERCQ 1965: 40) e non riesce a stare al passo coi tempi.
Nella f. prende corpo l’idea della proprietà privata patrimoniale e viene legittimata la concentrazione della ricchezza. Il fatto è che la f. distribuisce i beni con logica affettiva e non di merito, dà a chi è imparentato e non a chi merita. Avviene perciò che un membro scarsamente dotato di una famiglia altolocata può ricoprire posti di responsabilità pubblica e creare danni, mentre ad un giovane talentuoso di famiglia povera viene spesso negato il pieno diritto di esprimere e mettere a frutto le sue potenzialità. Dalla diseguaglianza delle opportunità e da una distribuzione dei beni, che è legata più a fattori familiari che a meriti personali, deriva la mancata piena valorizzazione dei talenti individuali e del capitale umano.
La f. condiziona in modo determinante i progetti di vita dei propri membri, interferendo così sia sui processi di libertà personale sia su questioni di giustizia sociale. Le principali vittime sono i bambini e le donne. “La famiglia in tutti i casi resta il luogo centrale delle decisioni di lavoro dei suoi membri: il destino professionale di ognuno, specie per le donne, è «programmato» in relazione alle esigenze e agli obiettivi della famiglia” (PACI 1983: 177). Alla fine, la f. diviene “il luogo centrale di riproduzione della subordinazione femminile” (DAVID, VICARELLI 1983: XI).
Generalmente i bambini non hanno “altro stato sociale che quello dei genitori” (in ANSHEN 1974: 267), e le loro prospettive di vita dipendono dalla classe di appartenenza dei propri genitori. “Finché la nostra struttura familiare rimarrà quella che è, non sarà possibile realizzare, nella corsa al successo personale, l’ideale nazionale di parità di condizioni, che tutti i contendenti, cioè, muovano dallo stesso punto di partenza” (ivi p. 267). È chiaro dunque che la f. rappresenta la principale causa di non attuazione delle pari opportunità, che pure sono previste dalla nostra costituzione (art. 3) e che dovrebbero essere ritenute irrinunciabili in un paese civile e democratico.
La f. può essere anche vista come il luogo in cui vengono assegnati ruoli precostituiti alle persone, con grave pregiudizio per la loro libertà. “L’uomo è coraggioso ed audace, la donna paurosa ed apprensiva, l’uomo è forte, la donna è fragile, l’uomo è interessato alla politica, la donna ai problemi domestici, l’uomo è dominante, autoritario e superiore, la donna è religiosa, capace di sacrificarsi e di sopportare. Ne risulta una contrapposizione che non è solo di interessi e di sfera di attività ma soprattutto di potere. Certi caratteri del ruolo femminile, proprio perché riconosciuti alla donna e dalla donna come impliciti nella sua natura e nel suo modo universale d’essere, ne sanciscono la dipendenza e la subordinazione” (VICARELLI 1980: 267-8). Tutto ciò tradisce “la contraddizione di un sistema che nel riconoscere gli uomini e le donne uguali, continua a richiedere alla donna un ruolo dipendente e subordinato” (VICARELLI 1980: 270).
In ultima analisi, la f. non sembra più in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze dell’uomo d’oggi e questo può spiegare, almeno in parte, il fatto che aumentano i divorzi e le persone che vivono da sole.

10.11. Famiglie povere e ricche
Talvolta però le cose girano male e una famiglia può venirsi a trovare ai livelli più bassi della scala sociale, dove non c’è più niente da perdere, a parte la propria inutile vita. A mala pena i figli frequentano la scuola pubblica e, il più delle volte, si fermano all’obbligo di legge e iniziano un’umile attività di lavoro o imparano a vivere di espedienti. Si sposano all’interno della stessa classe sociale e, quando va bene, ottengono per i loro figli un tranquillo posto statale, che li tira fuori dalla miseria, ma, se va male, si vedono costretti a bussare alle porte di tutte le strutture assistenziali e caritatevoli, come il comune, la chiesa o lo Stato, a cui chiedono un alloggio, capi d’abbigliamento, viveri, servizi, aiuti in denaro e sussidi. In altri termini, devono accettare l’infelice e degradante condizione di essere mantenuti dalla collettività. Le famiglie più povere sognano una società più giusta, ossia più egalitaria, che faccia pagare le tasse in modo proporzionale al reddito e offra più servizi e più lavoro per tutti. In teoria esse dovrebbero sviluppare una mentalità orientata a Sinistra, sensibile al cambiamento e alle riforme. Dovrebbero anche essere più propensi a cercare le innovazioni e ad accettare il rischio. Ma per loro la vita non è facile e, spesso, finiscono per lasciarsi incantare dai bei discorsi e dalle promesse di qualche prestigioso esponente della Destra e ingrossano le fila dei suoi clienti.
Le famiglie più facoltose sviluppano una mentalità di tipo aristocratico e ritengono giusto che il governo preservi le loro fortune e i loro privilegi, mentre si aspettano dal popolo un sentimento di riconoscenza per i loro meriti e per i servigi che essi hanno saputo dare al paese, anche in termini di prestigio a livello internazionale. Esse vogliono abolire la tassa di successione e ridurre al minimo la tassazione sulle proprietà immobiliari e sui profitti che derivano dagli investimenti finanziari. Difendono le tradizioni liberali del proprio paese e vogliono lo status quo. In poche parole, votano a Destra. E lo stesso fanno quelle famiglie della classe media che, pur non trovandosi al vertice della società, aspirano ad arrivarci. I ricchi non amano il rischio della novità, per paura di perdere, e lo stesso fanno i poveri, perché si sentono incapaci di cavalcare il cambiamento. Così, alla fine, la famiglia si riduce ad una sorta di piccola corporazione, tutta intenta alla tutela dei propri interessi e chiusa in se stessa.
La f. finisce così col costituire un ambiente relativamente chiuso, una sorta di gabbia, i cui membri si condizionano reciprocamente in tutti gli aspetti della loro vita: nell’educazione, nella scelta di lavoro, nel matrimonio, nello status sociale. Ma anche nei valori.
Tutte le famiglie difendono qualcosa: quelle ricche il proprio patrimonio e il proprio status sociale, quelle povere la casa popolare e il sussidio di disoccupazione. La f. è come uno Stato nello Stato, con un proprio bilancio economico, una propria politica interna ed esterna, una propria cultura, una propria tradizione, un proprio codice morale, un proprio sistema di valori, cui si sente legata e che la fanno sentire non inferiore a nessun’altra, piuttosto superiore. All’interno di ciascuna f. si coltiva una sorta di nazionalismo in miniatura, che possiamo chiamare “familismo”: la convinzione di essere meglio delle altre o, almeno, non inferiore.
Quello che la f. teme più di tutto è la disgregazione della propria compagine, il fatto che un proprio membro possa imboccare una strada molto diversa rispetto allo standard familiare, che lo faccia apparire stravagante agli occhi dei congiunti. Così, per il buon nome della famiglia, il bambino deve andare a scuola almeno come gli altri, vestire almeno come gli altri, avere la bicicletta, il video-game e il computer, almeno come gli altri. A meno che non viva di rendita, il padre deve svolgere un’attività lavorativa ben remunerata ed evitare di mettersi nelle condizioni di essere declassato o licenziato. Perciò egli si comporterà come vogliono i suoi superiori ed eviterà di assumere atteggiamenti ribelli, che possano mettere in crisi il suo principale ruolo, che è quello di principale fonte economica per la famiglia. La madre è chiamata a svolgere un importante ruolo, che va ad integrare quello svolto dal marito e che comprende la percezione di un reddito, oltre alla cura della casa e dei figli. Insomma, ciascun membro della famiglia è incasellato in suo specifico ruolo ed è chiamato ad interpretare la sua peculiare funzione.
Tra i principali valori trasmessi dalla famiglia, dobbiamo ricordare quelli dell’autorità paterna, della subordinazione della donna, dell’ubbidienza e del conformismo. David Cooper ha osservato che la famiglia non stimola la libertà creativa dei figli, bensì il loro perfetto e atraumatico inserimento nell'ordine sociale dato. Secondo lo studioso, “la prima cosa che si insegna al bambino non è come sopravvivere nella società, ma come sottomettersi ad essa” (COOPER 1972: 29).

10.12. Famiglie come caste
Le famiglie più facoltose sviluppano una mentalità di tipo aristocratico e ritengono giusto che il governo preservi le loro fortune e i loro privilegi, mentre si aspettano dal popolo un sentimento di riconoscenza per i loro meriti e per i servigi che essi hanno saputo dare al paese, anche in termini di prestigio a livello internazionale. Esse vogliono abolire la tassa di successione e ridurre al minimo la tassazione sulle proprietà immobiliari e sui profitti che derivano dagli investimenti finanziari. Difendono le tradizioni liberali del proprio paese e vogliono lo status quo. In poche parole, votano a Destra. E lo stesso fanno quelle famiglie della classe media che, pur non trovandosi al vertice della società, aspirano ad arrivarci. Le famiglie più povere sognano invece una società più giusta, ossia più egalitaria, che faccia pagare le tasse in modo proporzionale al reddito e offra più servizi e più lavoro per tutti. In teoria esse dovrebbero sviluppare una mentalità orientata a Sinistra, sensibile al cambiamento e alle riforme. Dovrebbero anche essere più propensi a cercare le innovazioni e ad accettare il rischio. Ma per loro la vita non è facile e, spesso, finiscono per lasciarsi incantare dai bei discorsi e dalle promesse di qualche prestigioso esponente della Destra e ingrossano le fila dei suoi clienti.
Oltre a rappresentare una palese causa di ingiustizie sociali, l’accumulo di patrimoni familiari, generalmente, non rende felici i membri della f. facoltose. Infatti, come osserva Chiara Saraceno, “È proverbiale nella nostra comunità che praticamente tutte le famiglie siano in lite per questioni di eredità” (1975: 116). La realtà è che l’uomo è felice quando sa di meritare quello che ha e quando sa di vivere in una società giusta. Ebbene, sotto questo aspetto, la famiglia procede in direzione contraria: non riconosce il merito e favorisce l’ingiustizia.
La famiglia tiene unite persone che, allo stato individuale, potrebbero non andare d’accordo e impone a ciascuno dei propri membri di sacrificare la propria individualità in difesa di un superiore interesse di gruppo. Sotto questo aspetto, possiamo dire che la famiglia “oscura la visione del singolo” (LAING 1973: 18). Secondo R.D. Laing, la famiglia è una di quelle istituzioni sociali (insieme alla scuola e alla chiesa) che sovrastano l’individuo, lo coartano in nome di presunti valori indiscutibili ed eterni. Normalmente, l’individuo che voglia affermare il proprio io trova impossibile o inutile o controproducente rivolgersi contro queste istituzioni e quasi sempre finisce per rassegnarsi, vivendo come se il problema non ci fosse. “Amiamo che i cibi ci vengano serviti con una certa raffinatezza, ma non vogliamo saper nulla degli allevamenti di bestiame, dei mattatoi e di quanto accade in cucina. Le nostre città sono allevamenti di bestiame; le famiglie, le scuole, le chiese sono i mattatoi dei nostri bambini; i collegi e le università sono le cucine. Da adulti, nel matrimonio e negli affari, mangiamo il prodotto finito” (LAING 1973: 110). È la politica dello struzzo. Essa ci consente di affrontare situazioni critiche con apparente successo e col minimo dispendio di energie.

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