sabato 29 agosto 2009

3. L’organizzazione del lavoro

Nella sezione precedente ho parlato del lavoro come principio, ora affronterò lo stesso tema nei suoi aspetti più pratici e organizzativi e cercherò di mettere in luce le principali differenze che intercorrono fra DD e DR.
Partiamo dalla seguente considerazione: oggi il lavoro richiede crescenti competenze tecnologiche e questo viene visto da taluno come un problema per la democrazia. Infatti, “Più la politica diviene tecnica, più la competenza democratica diminuisce” (MORIN 2001: 118). Al pari di «burocrazia», Tecnocrazia indica “un potere «altro» rispetto al potere del popolo” (PORTINARO 1998: 532) e, pertanto, si contrappone a Democrazia. Infatti, “la democrazia poggia sul consenso e la partecipazione, la tecnocrazia sulla competenza e l’efficienza” (PORTINARO 1998: 532). Più precisamente, “la teoria della tecnocrazia può essere considerata una variante della teoria delle élites” (PORTINARO 1998: 532). Tecnocrazia e democrazia sarebbero, dunque, antitetiche: “se il protagonista della società industriale è l’esperto non può essere il cittadino qualunque” (BOBBIO 1995: 23). Ma è proprio così?

3.1. L’organizzazione del lavoro DD
Nel mio modello DD l’organizzazione del lavoro compete alle Organizzazioni di Categoria (OC), cui sono affidate diverse importanti funzioni, come quella di predisporre un adeguato sistema di formazione professionale teorico-pratica e di organizzazione del lavoro (cf. cap. 49).
L’OC provvederà inoltre ad approntare un serio metodo di valutazione della quantità e della qualità della produzione individuale, in modo tale da poter collocare ciascun lavoratore in una particolare fascia di merito (che dovrà poi risultare nell’apposito Albo dei lavoratori, redatto e aggiornato annualmente, sempre a cura dell’OC). Un simile metodo è auspicato, per esempio nel campo della magistratura, da Paolo Borgna, almeno per i “dirigenti degli uffici” (FASSINO 2001: 159), ma, a mio giudizio, dovrebbe essere esteso in tutti i settori lavorativi. È lo strumento che manca al ministro Brunetta nella sua campagna contro i fannulloni e a favore dei meritevoli.
Stiamo così affermando che, in democrazia, dovrebbe valere il principio che chi più sa (limitatamente a questioni di ordine tecnico e ad esclusione della sfera morale, religiosa o politica) dovrà avere il compito di indicare agli altri le possibili vie da seguire. Se i tecnici hanno il compito di illustrare le singole questioni, con le relative soluzioni e le prevedibili conseguenze, saranno poi i cittadini elettori a scegliere quale soluzione tecnica adottare caso per caso, ovverosia a trasformare una relazione tecnica in atto politico. Così facendo, la DD diviene il luogo in cui meritocrazia e sovranità popolare trovano un punto d’incontro e generano una politica democratica.
In pratica, i cittadini vengono inseriti nei rispettivi Albi a conclusione di un adeguato percorso di formazione e vi rimangono fino alla quiescenza. Le imprese hanno l’obbligo di ricercare il personale di cui hanno bisogno negli Albi di categoria. L’assunzione deve poter avvenire in modo semplice e rapido, secondo una procedura che si articola in due semplici fasi. Nella prima fase, il responsabile dell’azienda consulta l’Albo di categoria e, dopo aver preso visione dei curricula degli iscritti in esso contenuti, seleziona una rosa di candidati che rispondono alle sue esigenze. Nella seconda fase, vengono chiamati a colloquio, uno ad uno, i candidati precedentemente prescelti, fermandosi nel momento in cui si ritenga di aver trovato la persona giusta, con la quale poi si stipula un contratto di lavoro. Altrettanto semplice e rapido dev’essere l’eventuale licenziamento del lavoratore di cui l’impresa non abbia più bisogno, il quale, grazie ad un adeguato sistema assicurativo, potrà continuare a percepire l’intero stipendio per un periodo limitato di tempo, trascorso il quale infruttuosamente, potrà contare solo su un ultimo paracadute: il reddito minimo garantito (RMG).

3.1.1. La retribuzione del lavoro
L’intera società DD ruota intorno al mondo del lavoro, che ne costituisce il sistema portante, rappresentando il mezzo attraverso cui la persona realizza il suo progetto di vita e, al tempo stesso, si pone al servizio degli altri. Il lavoro è scuola, perché c’è chi insegna e chi impara, ed è palestra, perché ciascuno ha modo di affinarvi le proprie abilità, ma nello stesso tempo è anche una valida risposta al bisogno dell’uomo di sentirsi utile e dimostrare il proprio valore, è un eccellente rimedio all’ignavia e all’ozio, è il collante che rende stabile la coesione sociale. Infine, il lavoro è il luogo dove il cittadino democratico completa la sua formazione e diventa idoneo ad essere inserito nelle cosiddette Liste dei commissionari o rappresentanti. La procedura è assai semplice, a volte addirittura automatica. In pratica, ogni lavoratore dev’essere iscritto all’Albo di categoria, e ogni iscritto ad un Albo può essere prescelto dalla comunità per una specifica commissione o rappresentanza, previo accertamento della loro disponibilità ad essere eletti (o sorteggiati). Lo scopo ultimo è la fusione della sfera lavorativa con quella politica e l’abolizione della figura del politico di professione.
Grazie al RMG, i cittadini possono esprimere al massimo il loro spirito d’iniziativa sul piano del lavoro ed accettare fattori di rischio, perché sanno che, anche in caso di fallimento, possono sempre contare sul RMG, il che dovrebbe incrementare non solo la produttività e la ricchezza generale, ma anche i consumi, che sarebbero favoriti dall’inutilità di accantonare risorse per tutelarsi di fronte agli imprevisti dell’esistenza, e queste, a loro volta, favorirebbero la piena occupazione di tutte le persone abili. Resta da stabilire il modo in cui i popoli vorranno impiegare la ricchezza prodotta. È presumibile che essi vorranno tener conto dei fattori ambientali ed eviteranno di superare i limiti dello sviluppo sostenibile, incoraggiando più il consumo di servizi sociali e di solidarietà umana che il consumo di beni materiali, e ponendosi come scopo ultimo non di puntare ad un incremento della produzione e dei consumi fine a se stesso, ma al benessere delle persone inteso nel senso più ampio.
Per quel che riguarda la questione delle naturali differenze fra gli individui, diciamo subito che essa è importante ai fini politici, perché ci consente di quantificare le differenze reddituali da lavoro ammissibili per legge. In sostanza, noi sappiamo che le persone sono disuguali per abilità fisiche, intelligenza, resistenza, volontà, gusti, interessi e via dicendo, e che da queste differenze deriva la loro capacità produttiva. Ora, una comunità DD dovrebbe chiedere alla scienza di trovare un modo per valutare la differenza teorica di produttività (DTP) tra il lavoratore meno abile e quello più abile, secondo il tipo di lavoro, in modo che i redditi da lavoro possano cambiare solo entro i limiti delle naturali differenze individuali, come risulta dalle nostre conoscenze scientifiche. Supponiamo che sia «n» la DPT determinata secondo le nostre conoscenze scientifiche per un certo tipo di lavoro, allora «n» sarà il coefficiente di differenza riconosciuto dalla legge, il che vuol dire che, per quel tipo di lavoro, la retribuzione potrà oscillare di «n» volte tra il livello più basso e quello più alto. Riguardo invece ai lavori di categoria diversa, si applicherà il coefficiente stabilito dalla Commissione per le Attività Produttive e i Servizi o CAPS (cf. cap. 49). Il principio è che i redditi da lavoro potranno variare in base al coefficiente di difficoltà del lavoro stesso.
Quanto appena detto ricorda vagamente il sistema economico descritto da Dahl nell’ipotetico paese di Frequalia, così chiamato da free (libero) ed equality (eguaglianza), che è fondato sulla promozione dell’individuo, sulla responsabilità personale, sulla giustizia e sull’efficienza, ma soprattutto su imprese autogestite, cui è data facoltà di fissare liberamente l’ammontare dei compensi per i propri lavoratori-membri. Secondo lo studioso, esse decideranno che il rapporto fra il compenso più alto e quello più basso sarà molto inferiore di dieci a uno (1996: 65), il che significa che, posto mille euro il compenso minimo, quello massimo ammonterà a molto meno di diecimila euro. Questo, ovviamente secondo Dahl, ma, nel nostro sistema DD, abbiamo supposto di affidarci a metodi scientifici di valutazione, evitando così di azzardare previsioni del tutto opinabili e infondate.
Anziché dalla DTP, si potrebbe decidere di partire dalla determinazione di un reddito minimo di sussistenza e da qui procedere alla valutazione dei superiori scaglioni di reddito da lavoro che, a questo punto, andrebbero quantificati in rapporto alla ricchezza complessiva prodotta. È anche possibile armonizzare i due metodi di determinazione del reddito, ma bisogna tener presente che, in ogni caso, non si tratta di metodi perfetti e a nulla vale l’esserci appellati alla scienza, perché la scienza non può fare il miracolo di trasformare in numeri ciò che il risultato di un complesso intreccio di delicati fattori umani. Quello che è certo è che, alla fine, il range reddituale si appiattirebbe e, grazie all’esclusione dei picchi bassi della povertà e quelli alti dell’eccessiva ricchezza, ne deriverebbe una società composta unicamente dalla classe media, la stessa che Aristotele ha indicato come lo Stato migliore possibile (Pol. IV 11, 1295b – 1296a). Anche i migliori legislatori, ricorda il filosofo, da Solone a Licurgo a Caronda, appartenevano al ceto medio (Pol. IV 11, 1296a).

3.1.2. Il sistema delle imprese autogestite
Per quel che concerne l’organizzazione vera e propria del lavoro, la DD mira ad offrire ai lavoratori condizioni tali da non ostacolare l’apporto attivo e creativo individuale, e stimolare la voglia di fare, fino a livelli di eccellenza. Perciò, potrebbe risultare ideale il ritorno alle cooperative autogestite di medio-piccole dimensioni, che sono già state sperimentate a partire dagli inizi del XIX sec., ma che hanno dovuto cedere “dinanzi alla resistenza opposta dagli interessi del capitalismo privato e al disinteresse dei sindacati” (SIK 1991: 413). Ebbene, questa sconfitta non sembra legata a ragioni di debolezza intrinseca del sistema cooperativo in sé nei confronti del capitalismo. I dati a disposizione dimostrano, infatti, che “le imprese autogestite possono essere molto efficienti e che nulla dunque impedisce una partecipazione democratica di tutti i lavoratori alla proprietà, ai profitti e alle principali decisioni inerenti alle linee di sviluppo” (SIK 1991: 411).
Alla fine, l’intero settore produttivo DD dovrebbe articolarsi in una miriade di aziende autogestite medio-piccole, che operano in perfetta autonomia o all’interno di aziende più grandi, anche internazionali, ma sempre nel rispetto del principio di sussidiarietà, vale a dire che il livello organizzativo più elevato interviene solo quando la compagine autogestita locale non sia in grado di assolvere ad un particolare compito. I sindacati non servono. Sono gli stessi lavoratori, infatti, azienda per azienda, che fissano i termini del proprio contratto, le modalità produttive e di aggiornamento professionale, il merito individuale, la qualità e la distribuzione dei prodotti, le tecniche commerciali, le norme di sicurezza, e quant’altro.

3.2. L’organizzazione del lavoro DR: la centralità del sindacato
In un sistema DR, l’organizzazione del lavoro ricalca quella della politica: come la politica ruota intorno ai partiti, così il lavoro ruota intorno ai sindacati. Al pari dei partiti, i sindacati sono chiamati a curare gli interessi della classe di lavoratori che rappresentano e, a tale scopo, trattano col governo le norme e le condizioni economiche che andranno a regolare i diversi settori lavorativi, ognuno dei quali attua specifiche modalità di lotta, che possono giungere fino alla proclamazione di scioperi. Ne consegue un sistema produttivo disomogeneo, che è caratterizzato da disparità nel trattamento economico, nelle tutele e nelle previdenze per lavoratori appartenenti alla stessa fascia di reddito o alla stessa categoria. Così, due operai, di età diversa, che lavorano nella stessa azienda e con la medesima mansione, di norma percepiscono salari diversi a seconda dell’anzianità di servizio, ma non in rapporto alla loro produttività, e, a parità di anni servizio, possono andare in quiescenza a condizioni diverse, a seconda della legge in vigore in quel particolare momento. A parità di età e di anni di servizio, due ragionieri possono percepire stipendi diversi, a seconda che siano impiegati in un piccolo comune o nel governo, ma non in rapporto ai loro effettivi meriti.
Oltre ad essere una delle cause di queste palesi iniquità, il sindacato si fa anche protagonista di una politica «egalitaria» che, se da un lato può sembrare giusta e apprezzabile, dall’altro lato entra in conflitto sia con le disuguaglianze reali promosse dallo stesso sindacato (vedi sopra), sia con l’aspettativa, assai diffusa fra i lavoratori, di un diverso trattamento economico per diverse abilità e impegno dimostrati, a parità di mansioni. Questa politica sindacale condotta all’insegna di una “uguaglianza formale” di stampo populista avrebbe dapprima attirato le masse, ma ha finito poi per alimentare “l’ingiustizia e l’inefficienza”, con grave pregiudizio per la tenuta della propria popolarità (ACCORNERO 1992: 317). E ciò spiegherebbe, secondo Aris Accornero, l’ascesa del sindacato negli anni Settanta e il suo rapido declino nel decennio successivo (1992: 33-4).
Eventuali incentivi non vengono assegnati ai più meritevoli, ma distribuiti a pioggia, così da premiare l’appiattimento più che l’eccellenza. Tutto ciò avviene perché non esiste un metodo obiettivo di valutazione del merito individuale, e non perché sia impossibile approntarlo, ma perché sindacati e partiti politici, forse temendo di perdere una parte del loro potere contrattuale e clientelare, semplicemente non lo vogliono. La conseguenza è che le differenze retributive continuano ad essere decise a tavolino dai sindacati e dal governo, all’interno di una logica di potere, che non è orientata al miglioramento né della competitività né dell’efficienza, e diffonde nei cittadini la generale sensazione di vivere in una società iniqua e sprecona, dove puoi fare ciò che vuoi, tanto alla fine le cose non cambiano e il carrozzone, in un modo o nell’altro, procede come ha sempre fatto. Se questa è la regola, non mancano le eccezioni, come insegna il caso Alitalia, un carrozzone che, nel 2008, ha finito per ribaltarsi, lasciando senza lavoro migliaia di dipendenti.

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