sabato 29 agosto 2009

1. La burocrazia

In senso letterale b. significa «governo dei funzionari». Chi sono questi funzionari? Nell’antichità erano membri dell’aristocrazia, che collaboravano col re nell’esercizio del potere. A partire dal XVIII secolo sono professionisti appositamente formati per svolgere specifiche funzioni nella pubblica amministrazione, anch’essi al servizio del sovrano, ma non più legati alla nobiltà di nascita.
Non c’è Stato che possa fare a meno di una pubblica amministrazione (PA), ossia di uno stuolo di funzionari gerarchicamente ordinati, i quali, servendosi di appositi protocolli operativi, più o meno rigidamente formalizzati, assicurano l’ordinato svolgimento della vita sociale dei cittadini alla luce della volontà del potere centrale (WEBER 1999). In concreto, “non vi è praticamente atto o attività nel nostro paese che possa compiersi senza la mediazione della pubblica amministrazione” (SCIARRETTA 1994: 225). Così concepita, la b. svolge funzioni di tramite fra i cittadini e il potere politico (ALBROW 1991: 591), rendendo operative le disposizioni del legislatore. Nella misura in cui questa PA tende a creare un codice di norme e un gergo suoi propri, coi quali finisce per identificarsi, essa assume l’aspetto di un potere terzo, sganciato sia dalla classe dominante che l’ha prodotta sia dal popolo cui si rivolge e, in quanto potere autonomo, può ben essere chiamato «burocrazia» o potere dei funzionari.
La PA italiana è costituita da una componente centrale (Ministeri, Inps, ecc.) e una locale (Regioni, Province, Comuni, Camere di commercio, ecc.), cui vanno aggiunti i sindacati, che hanno sezioni e sportelli (CAF, patronati) disseminati in tutto il paese, e una miriade di studi privati (commercialisti, amministrativisti, legali), che, tutti insieme, fungono da tramite fra i cittadini e la pubblica amministrazione, fra i lavoratori e lo Stato.

1.1. Burocrazia come tramite fra Stato e cittadini
La B. rappresenta il processo attraverso cui una legge riceve attuazione pratica e i poteri dello Stato diventano operativi. E si tratta di un processo regolato da norme precise, rigide e impersonali, non legate all’emozione del momento o al capriccio di un capo, un processo apparentemente neutro, garantista e democratico. Weber ha visto nella B. una forma di organizzazione razionale basata sui princìpi di competenza e diversificazioni dei ruoli in risposta ai crescenti bisogni delle moderne società industriali.
In un sistema democratico, “Le amministrazioni pubbliche sono costituite per tutelare gli interessi della collettività” (CASSESE 2006: 64). Questo è ciò che dichiara il diritto. Occorre però tener conto che la collettività non è una realtà omogenea e che spesso gli interessi del singolo cittadino non coincidono con quelli dello Stato, e viceversa. Può infatti accadere che la b. si mantenga in posizione equidistante fra le istituzioni e i cittadini, come dovrebbe essere, ma può anche accadere che penda da una parte o dall’altra. Dobbiamo dunque chiederci: quanto la b. serve ai cittadini e quanto al potere politico? La risposta a questo quesito è abbastanza scontata: dipende dal tipo di modello politico. In un governo autocratico il potere burocratico è sotto il pieno controllo del despota e asservito ai suoi personali interessi, mentre, in un governo popolare esso si pone al completo servizio dei cittadini. Fra questi due estremi si possono immaginare molteplici posizioni intermedie.

1.2. Economicità della burocrazia
Una seconda questione concerne il grado di funzionalità ed economicità dell’apparato. Il quesito è: qual è il modo migliore di organizzare e impiegare il potere burocratico indipendentemente dal modello politico che l’ha prodotto? In linea generale, si potrebbe dire che la migliore forma di b. è quella che coniuga la massima efficienza (dipendenti selezionati per effettive capacità, motivati, partecipativi, competenti, pagati per svolgere bene il loro lavoro, licenziati se non si impegnano) col minimo costo (a parità di servizi erogati), e, di converso, che la peggiore forma di b. è quella i cui dipendenti sono selezionati per raccomandazione o per logiche di partito, hanno il posto sicuro e sono pagati indipendentemente da come svolgono il loro lavoro. Nel primo caso, la b. sarà un bene indispensabile per il corretto funzionamento del modello politico e della società, nel secondo caso un problema.
In questa sede ci limiteremo ad evidenziare le principali differenze fra un apparato burocratico DD e uno DR.

1.3. La burocrazia DD
La società DD si distingue non solo per la sua semplicità (pochi articoli costituzionali e poche norme di legge), ma anche perché è congegnata per funzionare in modo semiautomatico, avvalendosi di procedure affidabili e trasparenti e soprattutto della più moderna tecnologia digitale e del denaro elettronico. Servono quindi pochi burocrati, il cui principale compito è quello di presiedere e sorvegliare il corretto funzionamento degli automatismi e di conferire il necessario apporto umano alla macchina. Da loro ci si aspetta anche che sappiamo guardare all’insieme delle cose e al di là della semplice procedura, che sappiano comprendere i reali bisogni dei cittadini, che abbiano quel buon senso e quella componente elastica che derivano dalla profonda conoscenza delle persone e che la macchina non possiede. Il burocrate dev’essere, pertanto, un funzionario molto preparato e in grado di assumersi importanti responsabilità sociali.
Come tutti gli altri lavoratori, anche il burocrate viene selezionato fra gli iscritti ai relativi albi di categoria e assunto, previo contratto individuale, o come dipendente dalla comunità o come libero professionista. In ogni caso, i contratti sono impostati per obiettivi e per periodi limitati di tempo; possono essere rescissi alla scadenza o rinegoziati per un numero indefinito di volte.
La b. si costituisce dal basso, a partire dalle istituzioni municipali, e si sviluppa articolandosi nei tre livelli successivi (regioni, stati, mondo), operando senza sovrapposizioni di ruolo, ma all’insegna del principio di sussidiarietà. Il lavoro di ciascun burocrate è controllato dalla rispettiva organizzazione di categoria (OC).
In un sistema DD il sindacato non serve, per tre ragioni. La prima è che, in un siffatto sistema, molte funzioni che oggi sono affidate ai CAF, come la dichiarazione dei redditi o il calcolo dell’ISE e dell’ISEE (indicatori della situazione economica), non sarebbero più necessarie o verrebbero affidate a strumenti meccanici digitalizzati. La seconda ragione è che gli interessi dei lavoratori vengono già tutelati indirettamente dalla CAPS e dalle OC (cf. cap. 49), attraverso il continuo miglioramento del sistema produttivo e del controllo della qualità dei prodotti, allo scopo di rendere i prodotti stessi sempre più competitivi nel libero mercato. La terza ragione è che il contratto lavorativo è individuale ed è curato in prima persona dallo stesso lavoratore.

1.4. La burocrazia DR (il caso Italia)
Anche per quanto concerne la PA, la costituzione italiana è equilibrata, garantista, giusta. L’art. 98 recita: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, sono ordinati secondo specifiche sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità (art. 97) e “sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti” (art. 28). Ma perché la PA possa funzionare a dovere occorrerebbe non solo che siano rispettati i presupposti su cui si basa lo stesso impianto costituzionale, come la reale indipendenza della PA dagli poteri istituzionali, ma anche che le norme di legge siano snelle, trasparenti e facilmente comprensibili dal cittadino medio. Sarebbe anche necessario che le procedure burocratiche siano semplici, rapide e soprattutto gestibili direttamente dal cittadino medio, e con costi minimi. Ma è proprio così?

1.4.1. Il sindacato
Prendiamo il caso del sindacato, che è un vero proprio simbolo della b., oltre che una struttura onnipresente, assai vicina e familiare ai cittadini e, dunque, più facile da indagare e capire. Quando il sindacato ancora non esisteva, ogni lavoratore doveva provvedere da sé sia a contrattare il salario e i termini del suo lavoro, sia a gestire le eventuali situazioni conflittuali e tutte le possibili evenienze quotidiane, come un infortunio, una malattia, un permesso, e così via. Il sindacato nasceva ai tempi della rivoluzione industriale, sotto forma di associazioni operaie, che erano state costituite allo scopo di conferire agli operai stessi un elevato potere contrattuale nei confronti dell’imprenditore o dello Stato. Dopo essersi diffuso nel mondo occidentale nel corso del XIX secolo, il sindacato s’imponeva definitivamente nei primi decenni del XX secolo, opponendosi con successo all’individualismo borghese e liberale che era emerso con la Rivoluzione francese, aprendo ad una logica di gruppo (CELLA 2004: 5). Da questo momento, ogni associazione sindacale ha rappresentato un’intera categoria di lavoratori e ha svolto “un grande ruolo di protezione del lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato” (CELLA 2004: 7).
Oggi i sindacati possono “stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce” (SCOGNAMIGLIO 2005: 37). Il loro principale strumento d’azione è la “contrattazione collettiva” (CELLA 2004: 61), la loro principale minaccia lo sciopero generale.
Le conquiste ottenute da una certa categoria di lavoratori grazie alle lotte sindacali vanno a beneficio di tutti i membri di quella categoria, anche di coloro che non hanno voluto partecipare alla lotta e non hanno nemmeno pagato la quota associativa, i cosiddetti crumiri o free-riders. Ciò, unitamente all’aumento dei costi per le lotte sindacali, a fronte di una ridotta capacità contrattuale dei sindacati stessi, può contribuire a spiegare il basso tasso di sindacalizzazione, ossia la bassa percentuale degli iscritti sul totale dei lavoratori attivi, che varia dal 10% della Francia a oltre l’80% dei paesi scandinavi, con tendenza a calare negli anni. Per esempio, in Francia si è passato dal 30% nel 1950 al 10% nel 1998, in Italia dal 45% al 38% nello stesso periodo (dati tratti da Cella 2004).
In fondo, i sindacati somigliano ai partiti politici. Anch’essi, infatti, rappresentano gli interessi della categoria e hanno un quadro di dirigenti eletti a maggioranza. Del resto, l’ascesa dei sindacati è avvenuta di pari passo con quella dei grandi partiti popolari. A differenza dei partiti, però, i sindacati hanno anche una forte somiglianza con la pubblica amministrazione, con la quale usano lo stesso linguaggio. Di fatto i sindacati non possono fare a meno di entrare nella sfera politica, se non altro per discutere con gli esponenti del governo su questioni che ineriscono al mondo del lavoro, ma, proprio a causa della funzione che svolgono, e cioè tutelare gli interessi di categorie di lavoratori, essi si vengono a trovare in naturale sintonia con i partiti popolari di sinistra piuttosto che con quelli di destra. Ciò può spiegare perché i sindacati sono visti dalla «destra» come fumo negli occhi e non desta alcuna meraviglia che personaggi, come Vittorio Feltri e Renato Brunetta (2007), vedono nel sindacato un “puro apparato di potere”, la causa di molti mali nel paese, o un’organizzazione mangiasoldi, che si allea con la «sinistra» e avversa la «destra».
Da quando è nato, il sindacato ha portato avanti, spesso con successo, importanti battaglie in difesa dei diritti dei lavoratori, ma, col passare del tempo, specie dopo la caduta del partito comunista, esso è andato perdendo smalto, mentre consistenti sono rimasti i relativi costi, che gravano sulle casse dello Stato. I bilanci del sindacato si conoscono solo in parte: si va dai finanziamenti ai patronati da parte di Inps, Inpdap e Inail, per un totale di 355 milioni di euro, ai finanziamenti ai CAF (centri di assistenza fiscale) da parte dello Stato, dell’Inps e degli utenti, per un totale di 364 milioni di euro, dalle trattenute nella busta paga dei lavoratori, per un totale di 600 milioni di euro, alle quote associative dei pensionati, per un totale di 372 milioni di euro, cui bisogna aggiungere il costo a carico dello Stato per i distacchi e i permessi sindacali, per un totale stimato intorno ai 200 milioni di euro (CALVELLI, CAZZOLA, SERVIDORI 2007). Il tutto ammonta, secondo quanto ci informa Stefano Livadiotti nel suo libro di successo, L’altra casta (2008), a un miliardo e 854 milioni di euro. Tale è la cifra che il nostro paese spenderebbe per il sindacato, ossia per quell’organismo che possiamo definire l’alter ego della burocrazia di Stato.

1.4.2. I numeri della PA
Dopo questa doverosa digressione sul sindacato, possiamo ritornare alla PA. Marco Cammelli definisce la PA italiana “mastodontica e sovradimensionata” (2004: 11), e i fatti sembrano dargli ragione. Infatti, stando ai dati riportati da Melis (1998: 60-7), nel nostro paese, i dipendenti pubblici sono passati da 1.083.934 (1948) a 1.417.529 (1963) a 2.274.602 (1983), e il loro numero è continuato a lievitare negli anni, tanto che, nel 2001, ha raggiunto le 3.423.000 unità, con un costo per lo Stato di 583 miliardi di euro, pari al 48% del Pil (CAMMELLI 2004: 11). Tra le principali cause che hanno contribuito a portare la spesa pubblica dal 10%, qual era all’inizio del XX secolo, al 48% di qualche anno fa, Cassese ricorda l’estensione dell’obbligo scolastico alla scuola media (1962), l’introduzione della pensione sociale (1974), l’istituzione del SSN (1978) e della Cassa integrazione (2000: 199), ma anche gli «sprechi», che sarebbero dovuti “al sistema di «governo spartitorio», alla debolezza ed inefficienza della burocrazia e alla mancata determinazione di standard di risultati” (CASSESE 2000; 199).

1.4.3. La funzionalità della PA
Se guardiamo ora ai servizi, non possiamo non notare che la loro qualità e quantità non sempre corrispondono all’alto costo pagato dai cittadini. Una delle principali cause d’inefficienza della PA consiste nel fatto che, se, in teoria, i funzionari amministrativi sono apparentemente scelti in base a concorsi e progrediscono secondo il merito, in pratica, “i vertici amministrativi sono nominati dal governo, e sono ministri che decidono, in ultima istanza, sulle carriere dei dipendenti. Vi è poi un vasto settore pubblico, economico e non, composto di enti i cui amministratori sono nominati dal governo” (CASSESE 1995: 74). Insomma, il potere amministrativo non è separato dalla politica e sottomesso unicamente alla legge, come dovrebbe, ma dipende dai leader di partito, che se ne servono per «sistemare» i propri amici e sostenitori più fedeli, oltre che per distribuire favori di tipo strategico, ossia, in ultima analisi, per rinforzare il proprio partito e la propria posizione al suo interno.
Assunti secondo strategie di natura politica e con un contratto di lavoro collettivo, gli impiegati pubblici vengono poi retribuiti in modo uguale e beneficiano in modo indiscriminato delle conquiste sindacali e dei premi a pioggia, che sono erogati periodicamente dai politici allo scopo di tenere alto il consenso. Inoltre, il fatto di poter contare sulla sicurezza del posto e sulla mancanza di strumenti di valutazione obiettiva del loro lavoro, ne può spiegare il lassismo, la scarsa motivazione, la svogliatezza, l’assenteismo.
Ma c’è ancora una questione da considerare, che forse è la più importante: il fatto che all’impiegato si richiede una competenza limitata al suo ruolo specifico, che, di norma, fa pendant con la necessità di osservare pedissequamente procedure rigide e stereotipate, da cui origina un’incapacità di valutare i problemi nella loro interezza, o di sapere scorgere le reali esigenze dei cittadini, o di saper leggere dietro le righe delle scartoffie. Il fatto di dover rispondere unicamente dell’osservanza della procedura li rende praticamente irresponsabili nei confronti delle persone. Tutto ciò è entrato ormai a far parte del corredo caricaturale del burocrate e ne descrive un cliché in tono negativo. Non per niente, come osserva Mises, “I termini burocrate, burocratico e burocrazia sono chiaramente offensivi” (1991: 15).

1.4.4. Cause e conseguenze dell’inefficienza della PA
Col tempo la B. è andata elaborando procedure sempre più complesse e ha sviluppato saperi e competenze altamente specializzati, così tecnici e specifici da risultare incomprensibili al cittadino medio e difficili da controllare anche da parte degli organi parlamentari e del governo. Ecco allora che la B. diventa un organo di potere autonomo, autoreferente, la cosiddetta «tecnoburocrazia», che è stata dipinta da pensatori, quali Ralf Dahrendorf e Herbert Marcuse, come uno dei pericoli maggiori per le libertà democratiche.
Malapolitica e malamministrazione hanno vita facile se esiste un sistema legale farraginoso. A beneficiare però non sono soltanto i politici e i funzionari della PA, ma anche i furbi, i ben informati, i traffichini, i faccendieri, ma anche la criminalità organizzata, la quale ha tutto l’interesse di approfittare della situazione per colludere con la politica e la pubblica amministrazione stessa. È così che talvolta prendono forma potentissime reti omertose e solidali, capaci di tenere in scacco i più elementari principi democratici, come quelli di trasparenza e di giustizia, con conseguenze disastrose per la democrazia. Infatti, “La malamministrazione fa crescere la sfiducia dei cittadini e degli imprenditori nella pubblica amministrazione, e in particolare nella possibilità di godere effettivamente dei diritti sanciti dalla legge. Ne consegue una ricerca di canali privilegiati di accesso alle decisioni pubbliche […, insieme alla] disponibilità a «comprarsi» l’accesso attraverso il pagamento di tangenti – cioè la domanda di corruzione […]. Come abbiamo visto, poi, la corruzione accresce l’inefficienza amministrativa, rimettendo in moto il circolo vizioso” (DELLA PORTA, VANNUCCI 1994: 464). In queste condizioni l’attecchimento della democrazia risulta pressoché impossibile.
Più l’apparato burocratico è complesso, più aumentano gli spazi di manovra di chi vuole giocare nel torbido, e il fatto che ogni anno vengono create leggi nuove, che spesso si aggiungono alle vecchie in un rapporto di incompatibilità, finisce per far lievitare il costo della politica e generare una situazione favorevole alle persone più vigili e scaltre e penalizzante per quelle più distratte o meno informate, determinando così una disparità fattuale dei diritti che nuoce alla democrazia. Che cosa fa, infatti, una legge? Immancabilmente, assegna diritti ad alcuni con esclusione di altri, stabilisce i requisiti per avere un beneficio, insieme ai relativi termini e procedure, che solo pochi conoscono. Chi non vuole essere tagliato fuori da un diritto o evitare una penalità deve rivolgersi a gente del mestiere, ossia ad un sindacato, ad un commercialista, o ad un funzionario di partito. Solo così può essere adeguatamente aggiornato sulle novità e su cosa sia più o meno conveniente per lui in quel preciso momento. Con questa logica, si radica nella gente la convinzione che, se non si vuole rimanere tagliati fuori, è bene salire su qualche carro, anche a costo di rinunciare ad una parte di libertà.
Fino ad un certo limite però una b. mastodontica e complessa può fare il gioco di pochi furbi senza essere letale per il popolo, per i politici e per il paese. Oltre questo limite, infatti, essa rischia di non funzionare più, diventando autodistruttiva e travolgendo ogni cosa. I politici devono dunque stare attenti a non travalicare, se non vogliono rompere il giocattolo o segare il ramo su cui sono seduti, e finora, bisogna ammetterlo, hanno dimostrato di essere ben consapevoli del pericolo e di essere sufficientemente intelligenti da trovare il modo di aggirarlo.

1.4.5. Ulteriori costi
Da un esercito di tre milioni e mezzo di pubblici dipendenti, che divorano quasi la metà del Pil, ci si aspetterebbe che almeno erogassero direttamente l’intero pacchetto dei servizi pubblici, compresi quelli ad elevato contenuto tecnologico, e così è stato infatti fino a poco tempo fa. Negli ultimi anni invece, stiamo assistendo ad una “tendenza alle privatizzazioni locali” (AMATUCCI 2002: 15), che pone la PA “non più come unico soggetto produttore ed erogatore dei servizi pubblici, bensì anche e soprattutto in veste di regolatore dei servizi” (AMATUCCI 2002: 19). Il conseguente aggravio di costi per i cittadini si traduce in una maggiore imposizione fiscale, che poi si riverbera negativamente sui consumi e mette in crisi l’apparato produttivo e il mercato, finendo per penalizzare la stessa classe politica, che rischia di essere travolta dalla perdita di consenso.

1.4.6. Necessità di riformare la PA
È con questi occhiali che dobbiamo leggere l’attuale stato della politica italiana, che si rivela incapace non solo di stimolare i consumi e favorire la crescita economica, ma anche di arginare il fenomeno della povertà e dell’emarginazione sociale, insomma, di opporsi al lento e triste declino del paese. Una classe politica responsabile, che volesse imboccare la strada virtuosa della rinascita, dovrebbe cominciare proprio da qui, da una profonda riforma della PA, tagliandone tutti i rami secchi ed elevandone la qualità.

1.4.7. La crociata del ministro Brunetta
Non posso chiudere questo argomento senza fare un cenno alla lodevole politica del ministro Renato Brunetta, che ha assunto, sia nei modi che nei contenuti, le sembianze di una crociata bandita allo scopo di riportare un decoro e un’etica in un settore dove queste virtù civili sembravano ormai irrimediabilmente perdute. Concretamente, il ministro da un lato ha dichiarato guerra all’assenteismo, dall’altro lato ha promesso punizioni agli inetti e premi ai più meritevoli. Cosa si potrebbe desiderare di più da un rappresentante politico? E come si fa a non votare un ministro che porta avanti battaglie così nobili? Teoricamente, l’impresa in cui si sta cimentando Renato Brunetta è davvero notevole, ma poiché, come cercherò di dimostrate più avanti, essa (se non interverranno altri fattori, che per il momento non si intravedono nemmeno) è votata a sicuro insuccesso, allora i casi sono due: o il ministro fa demagogia oppure dobbiamo dubitare della sua saggezza politica.
Cominciamo dall’assenteismo. L’assenteismo è un problema tra i più cronici e gravi della PA, una vera e propria piaga sociale sotto il profilo sia economico che etico. Esso però non è né l’unico e nemmeno il maggiore, ed è poco razionale volerlo affrontare senza tener conto degli altri problemi, ai quali esso è correlato e interdipendente, come per esempio, gli effetti di una logica clientelare delle assunzioni che ha caratterizzato la storia della Repubblica, senza prevedere la possibilità di licenziare o mettere in mobilità il personale che dovesse risultare in esubero. Immaginiamo un ufficio qualsiasi, dove venti impiegati eroghino un servizio che potrebbe essere svolto altrettanto bene da dieci persone, e supponiamo che, per effetto della «crociata» Brunetta, in questo ufficio l’assenteismo passi dal 50% allo zero per cento. Cosa ci ha guadagnato il paese? Nulla. Anzi, forse ci ha perso, per due semplici ragioni. La prima, è che controllare gli assenti implica un costo, che non è bilanciato, nel nostro caso, da vantaggi per la collettività. La seconda ragione è che costringere venti persone non solo a fare un lavoro di dieci persone non è né razionale, né vantaggioso, ma non è nemmeno dignitoso per gli stessi lavoratori.
Spesso la causa della disfunzione della PA non consiste nell’assenteismo, ma nell’eccessiva produzione di circolari e disposizioni di legge che, oltre a intasare gli uffici di carte, costringono gli impiegati ad un faticoso lavoro di aggiornamento e di interpretazione, aumentano il fabbisogno di personale sempre più esperto e destinando all’impotenza la massa dei dipendenti. Dunque, prima ancora di avviare una lotta contro l’assenteismo, o contestualmente a tale lotta, occorrerebbe ridurre il numero delle leggi e delle circolari, semplificare le procedure e chiudere gli uffici che non servono. In altri termini, meglio sarebbe riorganizzare prima la PA, adeguandola alle esigenze del momento, e poi avviare i controlli antiassenteismo.
Passiamo ora al secondo aspetto della «crociata»: punire gli inetti e premiare i meritevoli. Questo sarebbe davvero l’obiettivo numero uno per un paese serio, il traguardo più ambizioso che si possa immaginare per un uomo politico che abbia a cuore il bene comune, perché non è accettabile, né sotto il profilo etico né sotto quello economico, che lo stipendio sia uguale per tutti e i premi cadano a pioggia su intere categorie di lavoratori. Le intenzioni del ministro Brunetta sono perciò ammirevoli, se non fosse per il fatto che queste ambiziose intenzioni possono produrre i benefici sperati solo se si dispone di un metodo valido e oggettivo di valutazione della quantità e qualità produttiva di ogni singolo lavoratore, che però, per quanto ne so, non esiste, e nemmeno è allo studio. Ora, è evidente che, in mancanza di un metodo di valutazione serio, non è possibile usare bastone e carota, se non in modo arbitrario e soggettivo, una volta si diceva padronale. La mancanza dello strumento fa sì che il «superiore» possa erogare punizioni e premi ai suoi subordinati su basi pretestuose, per esempio, perché gli sono antipatici o si comportano in modo poco ossequioso, o perché gli sono simpatici, ed esibiscono un comportamento docile e condiscendente. Poco alla volta gli uffici diventerebbero piccole sfere di potere abilmente manovrate da astuti e boriosi capetti circondati da collaboratori remissivi e servili, ma ciò, se è la regola in un regime autocratico, non può essere tollerato in nessuna democrazia.

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