sabato 29 agosto 2009

8. La televisione (e Internet)

La televisione, come servizio pubblico, ha fatto il suo ingresso nel mondo nel 1947, dapprima negli Usa e poi in tutti gli altri paesi, facendo registrare dovunque un successo strepitoso, a tal punto che oggi, dopo soli sei decenni, si può dire che non c’è casa sulla terra che non abbia una tv. Il segreto di tanto successo è certamente la semplicità dello strumento e soprattutto dalla sua multimedialità. Fornendo audio e video insieme, infatti, la tv può essere seguita con minimo sforzo, “nulla di simile alla fatica della lettura o all’attenzione per seguire la radio” (MENDUNI 1998: 17). Grazie all’occhio elettronico, il telespettatore può gettare il suo sguardo curioso nell’intero ecumene, vedere e ascoltare cose che accadono a grandi distanze, stando comodamente seduto a casa. A causa della sua capillare presenza e della facilità d’uso, lo strumento televisivo ha delle potenzialità enormi, nel senso che può condizionare il livello di informazione e di capacità critica delle persone, pilotare le loro opinioni, i loro gusti e i loro consumi, formare cittadini liberi e democratici, oppure omologati e gregari.

8.1. La televisione
Attualmente la t. è in grado di offrire una serie di programmi, il cosiddetto palinsesto, preventivamente selezionati da un comitato responsabile, che scorrono sullo schermo giorno dopo giorno, secondo l’ordine prestabilito. Al telespettatore è data la facoltà di accendere o spegnere il televisore, di passare da un canale all’altro, scegliere un programma e seguirlo col livello di attenzione che più gli aggrada, ma non gli è data la facoltà di personalizzare l’orario di un programma, di rivederlo o di intervenire su di esso. Il palinsesto fluisce pressoché ininterrottamente e il telespettatore può solo scegliere dove e per quanto tempo orientare la sua attenzione.
Poiché le reti pubbliche percepiscono un canone obbligatorio, devono, almeno in teoria, offrire un servizio ai cittadini, vale a dire devono mandare in onda qualche programma che si ritiene utile e opportuno, indipendentemente dal fatto che piaccia o meno, che sia remunerativo o meno. Per le reti private, invece, è fondamentale che un programma vada incontro ai gusti del maggior numero di persone, perché l’incasso della pubblicità è proporzionale all’audience e, se questa scende al di sotto di un certo limite, la rete rischia di andare in deficit.
Se un utente non desidera essere raggiunto dagli spot ha due possibilità: o non accende il televisore oppure si abbona ad una pay tv, che gli offre in visione «pulita», cioè priva di messaggi pubblicitari, eventi sportivi, film e altro, che vengono trasmessi ad orari prestabiliti. Se uno, invece, vuole vedere un film nell’orario da lui prescelto, o a più riprese, non gli resta che acquistare o noleggiare il relativo DVD. Questa situazione è destinata a cambiare entro il 2012, almeno in Europa, dove si prevede il passaggio dalla t. analogica a quella digitale, che dovrebbe offrire numerosi vantaggi, fra cui una più ampia scelta e varietà di programmi, maggiore qualità dell’immagine, riduzione dei costi e interattività.
Nei confronti di questo mezzo, così onnipresente e intrigante, ma anche così ricco di potenzialità, le opinioni degli studiosi si sono divise. I fautori vedono nella t. un fattore di progresso e civiltà e uno strumento capace di favorire la diffusione dell’informazione, la crescita culturale delle masse, la mobilità sociale verso l’alto e perfino la partecipazione politica; uno strumento, insomma, che “può e deve svolgere un’insostituibile funzione di agenzia culturale per favorire un’eccezionale diffusione delle conoscenze e dei saperi, presupposto di ogni modernizzazione, e antidoto contro il conformismo e il livellamento spirituale dell’opinione di massa alimentati dalla televisione commerciale” (PARASCANDOLO 2000: 145). I detrattori vedono invece nella t. uno strumento di dominio e di manipolazione, manovrato dal potere economico (e dunque non libero) e in grado, come un Grande Fratello, di controllare le persone, di condizionare il loro pensiero e pilotare le loro preferenze, attraverso la mistificazione volontaria della realtà.

8.2. Internet
Qualcosa di simile si può dire anche a proposito di Internet, che alcuni decantano come la più formidabile macchina per la diffusione dell’informazione, della libera discussione e della e-democracy, e altri criticano come una nuova Babele, dove tutti possono esercitare il diritto di parola e il caos regna sovrano, finendo per avvantaggiare, ancora una volta, i gruppi dominanti.

8.3. Giovanni Sartori
In questa sede è mia intenzione di illustrare il ruolo che t. e Internet svolgono pro o contro la democrazia e, a questo scopo, prendo spunto da un libro di Giovanni Sartori di qualche anno fa, intitolato Homo videns, in cui lo studioso sottopone a dura critica ogni tipo di trasmissione di informazioni per immagini. Oggetti dei suoi strali sono la t. innanzitutto, ma anche Internet. Perché questa avversione nei confronti dell’immagine? Ecco, in sintesi, le argomentazioni di Sartori.
Prima della scoperta del linguaggio alfabetico, dice lo studioso, l’uomo primitivo si serviva dei propri sensi come unico strumento di esplorazione e conoscenza. Il nuovo linguaggio altro non era che un insieme di simboli astratti, che venivano usati sia al posto degli oggetti e dei fenomeni realmente osservabili, sia per descrivere emozioni e stati d’animo. Il linguaggio simbolico ha liberato l’uomo dalla stretta dipendenza dall’ambiente naturale e gli ha conferito la facoltà di costruire idee, ipotesi, teorie, dottrine, facendolo entrare nel mondo della cultura tipicamente umana. Nasceva così l’uomo, inteso come «animale simbolico». Il linguaggio scritto può essere visto come la piattaforma sulla quale si è sviluppato il progresso culturale in tutti i settori dello scibile.
Dal reale al simbolico, dunque, dall’immagine concreta al pensiero astratto: questa la direzione dell’evoluzione umana, è questa la chiave che ha reso possibile il passaggio dall’animalità all’umanità, dalla biologia alla cultura, dall’istinto alla ragione. Ora, proprio per il fatto che privilegia l’immagine, la televisione rappresenta un passo indietro in questo percorso evolutivo e, dunque, è da considerare un regresso. In particolare, essa divulga informazioni limitate, frammentate e spesso distorte, e, pertanto, è lungi dal rappresentare un adeguato strumento di cultura. Né si può pensare ad un suo utilizzo parziale, come integrazione della cultura scritta. Tra cultura scritta e cultura audio-visiva, infatti, non c’è complementarietà, ma “soltanto contrasto” (p. 113). Ciò posto, Sartori passa ad illustrare le possibili conseguenze negative di questo regresso.
I “bambini guardano la televisione, per ore e ore, prima di imparare a leggere e scrivere” (p. 14) con grave nocumento per lo sviluppo della loro intelligenza simbolica. La televisione è la loro prima (pessima) maestra. Inoltre, sulla televisione grava la tremenda responsabilità di contribuire pesantemente a formare l’opinione della gente. “Oggi – scrive Sartori – il popolo sovrano «opina» soprattutto in funzione di come la televisione lo induce a opinare” (p. 38). Nemmeno la rete Internet si salva dall’attacco di Sartori. Lo studioso si limita ad accreditare Internet di un “avvenire modesto” (p. 29) sotto il profilo culturale, senza, tuttavia, soffermarsi ad illustrare le ragioni del suo giudizio negativo, che, pertanto, risulta non facile da capire.
Per quel che mi riguarda, condivido la posizione di Sartori a proposito del linguaggio e, in parte, anche la sua avversione nei confronti della televisione. Per tutto il resto, tuttavia, fondamentalmente discordo. Capisco che l’informazione per immagini abbia dei limiti, ma perché mai considerarla incompatibile con la cultura scritta? A me pare piuttosto che si debba parlare di integrazione. Personalmente amo molto la lettura e concedo poco tempo alla tivù eppure, pur avendo divorato numerosi libri sugli animali, ritengo di dover ringraziare la televisione per avermi mostrato tante immagini di animali ripresi nel loro habitat. È vero che la telecamera è limitata e ingannevole. Ma forse che i nostri sensi possono fare di meglio? Il fatto poi che la televisione offre prodotti di non eccelsa qualità non ci autorizza a screditare il mezzo televisivo in quanto tale. Sarebbe come dire: il denaro viene speso male, dunque gettiamolo nella spazzatura. Se invece vediamo la televisione per quella che è, cioè un semplice mezzo di comunicazione, dovremmo conseguire che essa, di per sé, non è né buona né cattiva. Dipende dall’uso che se ne fa.
I bambini, lamenta Sartori, stanno troppe ore davanti al televisore. E che, ciò è forse colpa del televisore? Il televisore non si accende da solo. Sono i genitori che espongono e abbandonano i propri figli davanti allo schermo per le ragioni più disparate. È controproducente attribuire alla televisione responsabilità che appartengono ad altri. È controproducente perché distoglie l’attenzione dalle vere cause del problema, che sono le stesse del fenomeno dei figli abbandonati o affidati ad altri.
Altra responsabilità che Sartori affibbia alla televisione è il condizionamento della pubblica opinione. Ancora una volta lo studioso trascura di prendere in considerazione le vere cause del problema. Il condizionamento dipende dalla formazione culturale dei cittadini. È difficile imporre punti di vista a chi disponga di un solido bagaglio culturale e di una personalità matura. Il potere della televisione è legato alla debolezza culturale della gente e lo si può debellare solo migliorando l’educazione dei singoli individui.
Se posso, in parte, condividere le critiche di Sartori alla televisione, mi sembra del tutto incomprensibile il fatto che lo studioso coinvolga nel suo giudizio negativo anche Internet, quasi che Internet fosse da mettere sullo stesso piano della televisione. Ma noi sappiamo che così non è. Mentre la televisione, infatti, invia messaggi (principalmente immagini) a senso unico in direzione dell’osservatore, che li subisce passivamente; Internet trasmette solo i messaggi (testi oltre che immagini) che l’utente richiede. Nel primo caso il soggetto è passivo, nel secondo protagonista. La differenza è netta. E, infatti, se è un bambino di due anni può seguire la tivù, lo stesso bambino non è capace di «navigare» in Internet. Si tratta di strumenti profondamente diversi. Internet contiene un mare di informazioni di ogni tipo. In questo mare è facile smarrirsi, è vero. Ma si può fare anche un’ottima pesca. E allora, forse è utile tornare al discorso della cultura personale: Internet può arricchire enormemente la persona saggia e avveduta, mentre l’insipiente tende a naufragarvi. Ne consegue che Internet, come e ancor più che la televisione, non dev’essere considerata, di per sé, né buona né cattiva.
Perché allora Sartori si atteggia negativamente nei suoi confronti? Ripeto: in Homo videns le ragioni anti-Internet dello studioso non appaiono chiare ed esaurienti. Mi sorge un dubbio: sarà forse che Sartori teme che la «rete delle reti» possa favorire quella democrazia diretta, che egli detesta? Mi spiego. Attraverso Internet ciascuno di noi può comunicare con chiunque altro da un capo all’altro del mondo stando comodamente seduto a casa propria. Il livello di affidabilità e discrezionalità dello strumento telematico è tale che recentemente in Italia è stato possibile emanare una legge, che abilita Internet nelle transazioni economiche. Ciò vuol dire che se io, che abito a Udine, voglio vendere il mio appartamento di Catania, lo posso fare via Internet. Ora, se posso fare tanto, chi mi impedisce di far correre all’interno della rete la mia opinione su una questione politica che si sta dibattendo? Ecco come Internet può diventare un importante strumento di democrazia.
Ora, se partiamo dall’idea che Sartori ha della democrazia potremmo comprendere il giudizio dello studioso su Internet. Secondo Sartori è inimmaginabile una democrazia senza deleghe e senza partiti, una democrazia che non sia rappresentativa. Ecco le sue stesse parole: “Democrazia vuol dire, alla lettera, «potere del popolo», sovranità-comando del demos. E nessuno contesta che questo sia il principio di legittimità che istituisce la democrazia. Il problema è sempre stato di come e di quanto trasferire questo potere dalla base al vertice del sistema potestativo. Una cosa è la titolarità, e tutt’altra cosa è l’esercizio del potere. Il popolo sovrano è titolare del potere. In che modo è anche in grado di esercitarlo?” (p. 89). Sartori avanza forti dubbi sulle capacità del popolo di prendere decisioni responsabili e, conseguentemente, lo esclude di fatto da quel potere che è disposto ad attribuirgli in teoria. Per lo studioso “il grosso del pubblico non sa quasi nulla dei problemi pubblici. Ogni volta che si va a vedere, si scopre che la base di informazione del demos è di una povertà allarmante, di una povertà che non finisce mai di sorprenderci” (p. 89).
Evidentemente Sartori deve avere un pessimo concetto delle potenzialità intellettive del popolo. Ecco perché, in un periodo in cui molti rivendicano il diritto del popolo di appropriarsi di quella sovranità che gli appartiene, Sartori si mostra preoccupato e scrive: “anche se i poveri di mente e di spirito sono sempre esistiti, la differenza è che in passato non contavano –erano neutralizzati dalla loro dispersione– mentre oggi si rintracciano [grazie a Internet e alla televisione] e, collegandosi, si moltiplicano e si potenziano” (p. 109). Come dire: una volta il popolo era disperso e perciò inoffensivo, ora può comunicare facilmente e perciò è un pericolo. È possibile che, attraverso Internet, Sartori intenda in realtà colpire la democrazia diretta. Lo dimostrerebbero le parole di autentico disprezzo che egli rivolge ai sostenitori di questa, i cosiddetti direttisti. “I «direttisti» – scrive il Nostro – distribuiscono patenti di guida senza chiedersi se i loro patentati sanno guidare” (p. 93). Pertanto, conclude, “chi invoca e promuove un demos che si autogoverna è un truffatore davvero senza scrupoli, o un puro irresponsabile, un magnifico incosciente” (p. 93).
Viene il sospetto che il pensiero di Sartori si debba leggere alla luce della scarsa stima che lo studioso ha dell’uomo comune. Quest’uomo oggi è, nella maggior parte dei casi, incapace di autogovernarsi (concordo con Sartori). Ma perché deve esserlo per definizione? Oggi l’uomo comune potrà anche non avere la patente, né sapere guidare, ma perché negargli il diritto di potersi impegnare allo scopo di conseguire il titolo e le abilità necessarie per guidare? La t. non è il male assoluto, anzi può rivelarsi un formidabile strumento di democrazia, capace di favorire l’informazione e la partecipazione del cittadino alla “pubblica discussione finalizzata a prendere delle decisioni riguardanti la collettività” (CAMPUS, GERSTLÉ 2007: 93).

8.4. Televisione e Internet come strumenti
In conclusione, credo sia possibile affermare che Televisione e Internet sono solo due formidabili strumenti, che possono svolgere un ruolo determinante nella formazione e nel condizionamento della pubblica opinione, del mercato e dei consumi, servendo tanto alle buone cause che alle meno buone, tanto ai regimi dispotici che a quelli democratici, il che basta a giustificare la spaccatura della critica nei suoi confronti. In realtà, a mio parere, i veri imputati non sono Televisione e Internet, ma il modo in cui questi strumenti vengono usati, modo che cambia sensibilmente in un sistema DD piuttosto che in uno DR.

8.5. La televisione e Internet nella DD: due strumenti di informazione, a pagamento
La DD assume che “i mass media possono essere strumenti della democrazia soltanto se i cittadini si trasformano da spettatori/consumatori in attori del processo comunicativo (CAMPUS, GERSTLÉ 2007: 89). Per la DD, la televisione è uno strumento polivalente, che si deve occupare sì d’intrattenimento, ma che dev’essere orientato prevalentemente a fornire informazioni e servizi di pubblica utilità. Ai cittadini dev’essere riconosciuta la facoltà di scegliere l’argomento su cui desiderano informazioni e di partecipare a libere discussione su tutto ciò che è di loro interesse. Le trasmissioni saranno perciò interattive, aperte a tutti e non condizionate dall’audience e da esigenze commerciali, perché i relativi costi verranno assunti dai singoli cittadini che si avvalgono del servizio. Ciò vale anche per i programmi d’intrattenimento. Il principio ispiratore è che ogni servizio ha un costo e dev’essere pagato, secondo l’uso che se ne fa (come avviene per il gas o l’energia elettrica) oppure con una tassa forfettaria, come avviene per il canone. In ogni caso, il cittadino deve sapere quello che spende in cambio di un servizio che lui stesso richiede e fruisce.

8.6. La televisione nella DR: uno strumento della politica …
Uno strumento di comunicazione così pervasivo e invasivo, com’è la televisione, che è in grado di trasmettere in tutte le case i più svariati programmi di intrattenimento e informazione, non poteva non richiamare l’attenzione dei massimi centri di potere economico e politico, che vi hanno proteso i loro tentacoli. Non ci meravigliamo, pertanto, se oggi la t. svolge principalmente una funzione economica e politica. La prima è palese, perché è visibile attraverso gli spot pubblicitari, attraverso i quali le aziende espongono al paese i loro prodotti destinati al consumo e che sono assai noti e familiari al grande pubblico. La funzione politica della t. è meno evidente, e perché, in genere, si presenta camuffata sotto forma di servizi pubblici (telegiornali, dibattiti) e bisogna saper leggere dietro le righe per accorgersi che lo schermo televisivo funge da palcoscenico ai parlamentari, i quali, attraverso questo strumento, parlano e si rendono visibili ai cittadini, ma anche filtrano e controllano l’informazione.
Assai rilevante, per non dire determinante, è il ruolo della t. in occasione delle consultazioni elettorali, grazie alla possibilità di fare oggetto di esposizione mediatica, potremmo dire di pubblicità, questo o quel candidato. Secondo Bentivegna, “si può sostenere che le moderne campagne elettorali possono essere affrontate e talvolta possono portare alla vittoria contando sulle opportunità offerte dal sistema mediale sfruttando tutti gli strumenti utili a «posizionare» il candidato nel mercato elettorale” (1997: 22). Possiamo dire, dunque, che la t. rende i politici protagonisti di una politica-spettacolo, che paga in termini di consenso e di voti. “La campagna elettorale è stata così paragonata a un concorso di bellezza, dove vince chi riesce a sedurre il pubblico” (DELLA PORTA 2001: 122).

8.7. … e dell’economia
In un sistema DR, la televisione non è considerata un servizio per il cittadino, ma principalmente uno strumento d’intrattenimento, la cui funzione è quella di creare audience per fini commerciali. “Che cosa vende esattamente, la TV? Nella sua forma monopolistico-pubblica essa vende, formalmente, un abbonamento, che però è legato non alla fruizione di un contenuto, ma esclusivamente al possesso di un utensile” (ORTOLEVA 1998: 551). Col canone il cittadino non paga un servizio, “ma una vera e propria tassa” (ORTOLEVA 1998: 551). I costi dei programmi vengono addossati agli inserzionisti pubblicitari, ossia alle imprese, che poi si rifanno con la maggiore vendita dei loro prodotti, e quindi sul consumatore. “Di qui la mediocre qualità dei programmi televisivi. Ideati per un pubblico composto da milioni di anonimi consumatori, essi devono di necessità presentare caratteristiche tali da risultare adatti alla psicologia e ai gusti dell’uomo medio” (PELLICANI 1998: 137). Dal momento che le reti televisive sono controllate dal potere politico-economico, è lecito dubitare che esse ci mostrano un quadro fedele della realtà. “Tutto il contrario: è una realtà, quella che scorre davanti allo sguardo distratto del telespettatore, inevitabilmente selezionata, manipolata, costruita; una realtà, insomma, che ha solo la parvenza dell’oggettività” (PELLICANI 1998: 137).
La DR non mostra alcun interesse a far crescere i suoi cittadini e offre spettacoli adeguati ad un pubblico di livello medio-basso, con la conseguenza che “l’industria televisiva è estremamente mediocre, senza alcun riguardo per l’innalzamento del livello culturale e della coscienza civica dei telespettatori. Ciò che finisce per andare in onda è ciò che ha il potere di attrarre il pubblico, vale a dire tutto quello che fornisce in maniera immediata gratificazione, relax, emozioni e fuga dalla realtà; come dire, l’opposto di quei programmi che richiedono attenzione, concentrazione e serietà. L’ossessivo obbiettivo della tv commerciale, oggi, è quello di allevare l’audience per poi venderla agli inserzionisti” (GROSSMAN 1997: 211). Ai cittadini viene solo richiesto di divertirsi e rilassarsi il più possibile. “Non v’è dubbio che uno dei motivi dell’enorme popolarità della televisione è che guardarla non richiede alcuno sforzo. Fra tutte le attività umane, solo il dormire è meno impegnativo” (GROSSMAN 1997: 117).
In sostanza, la t. funziona come qualsiasi altra azienda produttiva e obbedisce alle stesse regole, che sono quelle del mercato. Qual è la merce prodotta? Molti diranno: i programmi. E invece no. La merce prodotta dalla t. è l’audience, ossia i telespettatori. Sono loro che vengono venduti agli inserzionisti. In pratica, attraverso il programma, si adescano i telespettatori e li si conduce davanti alle vetrine mediatiche degli inserzionisti. “Il gestore di una televisione privata, di fatto, è un venditore pubblico. Cioè vende i propri spettatori a quelle aziende che si vogliono far conoscere e vogliono a loro volta vendere i propri prodotti. Più numeroso è il pubblico che si vende, più alto è il prezzo dello spot su quella rete” (GIACALONE 2007: 153). In definitiva, il motore della t. è la pubblicità e la merce di scambio i telespettatori. “Senza la pubblicità, senza l’afflusso di ricchezza che da essa deriva, diminuirebbe notevolmente l’offerta televisiva, il che significa che diminuirebbero i canali fra i quali scegliere, e diminuirebbe la qualità (intesa come rispondenza alle domande del pubblico) dei programmi trasmessi. In una parola, se non ci fosse la pubblicità il popolo telespettatore ne risulterebbe gravemente danneggiato” (GIACALONE 2007: 151-2).
Da quanto abbiamo detto, dovrebbe risultare chiaro che intorno allo strumento televisivo ruotano quattro principali protagonisti, che sono: i proprietari delle reti, gli inserzionisti, i politici e i telespettatori. Adesso è facile capire chi vince e chi perde. Il proprietario della rete è un venditore e deve avere un profitto. Anche gli inserzionisti sono venditori e devono avere un profitto. I politici hanno l’opportunità di costruirsi un’immagine e di catturare consensi, e perciò hanno solo da guadagnarci. Gli unici che non sono venditori e non hanno un’immagine da curare sono i telespettatori, e sono proprio loro che pagano. Infatti, anche se i programmi sostenuti dalla pubblicità commerciale sono, almeno apparentemente, esenti da costi, il cittadino deve mettere in bilancio che potrà pagare un costo quando andrà a comprare gli articoli reclamizzati.

8.8. Aspetti anti-democratici della televisione
Per quel che riguarda l’Italia, occorre ammettere che esiste una grossa discrepanza fra teoria e realtà. Infatti, il monopolio che lo Stato (parlamento, governo, partiti) esercita sulla tv si può giustificare solamente nell’ottica di consentire l’accesso a tutti i cittadini, in accordo con il dettato costituzionale, che afferma: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21). Ma così non è. Non è vero che qualunque cittadino abbia facoltà di manifestare liberamente il proprio pensiero in tutti i mezzi d’informazione pubblica, sostenuti con denaro pubblico. È vero invece che agli organi d’informazione accedono solo soggetti autorizzati, che generalmente fanno parte di gruppi organizzati e istituzioni, e dunque sono facilmente controllabili e ricattabili. Dietro la scelta del monopolio “c’è la concezione paternalistica dello Stato come autorità e dell’informazione come potere. Un potere in grado di condizionare, manipolare, esercitare pressione sull’opinione pubblica” (CHIMENTI 2000: 15).

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