sabato 29 agosto 2009

6. La proprietà privata

“Le idee riguardanti la proprietà e il possesso dei beni in generale differiscono notevolmente da una cultura all’altra, e l’accento posto sulla proprietà privata e individuale, tipico della società occidentale, è assente in molte altre culture” (BEATTIE 1978: 271). Come vedremo meglio più avanti, solo da Locke in poi, è prevalsa la concezione sostenuta dai pensatori liberali, i quali hanno annoverato la proprietà fra i diritti fondamentali dell’uomo. Secondo Ferrajoli, sono stati ingannati dal carattere polisenso dell’espressione «diritto di proprietà», che potrebbe significare sia il diritto a divenire proprietari, sia il diritto di disporre di proprietà (2001: 13). Solo nel primo caso, afferma Ferrajoli, sarebbe lecito parlare di diritto fondamentale, nel secondo caso invece saremmo di fronte ad un diritto patrimoniale, e l’averlo incluso fra i diritti fondamentali è, secondo lo studioso, frutto di un «equivoco» in cui sarebbe caduto Locke e tutti gli altri pensatori liberali che lo hanno seguito (2001: 13). Oggi, in tutto il mondo occidentale, si parla di diritto fondamentale, sia in riferimento al soggetto che possiede solo la casa in cui abita, sia in riferimento al soggetto che possiede cento case. Insomma, sia il Sig. Rossi, che è proprietario solo dell’appartamento in cui abita, sia il Cav. Berlusconi, che possiede cento case, esercitano lo stesso diritto. Ora, poiché il diritto di proprietà condiziona pesantemente le vite delle persone, oltre che i sistemi politici, onde evitare possibili fraintendimenti, è bene chiarire il significato che attribuirò ai singoli termini.

6.1. Significato dei termini
Col termine «bene materiale» o «risorsa economica» mi riferisco a quelli che la nostra Costituzione chiama “beni economici” (art. 42), ovvero a tutto ciò che è in grado di soddisfare un qualche bisogno umano ed è disponibile in quantità limitata. Quindi, non solo i beni alimentari e immobiliari (cibo, case e terreni) e i mezzi di produzione (macchine e apparati industriali), ma anche la capacità di lavoro, la creatività individuale e, soprattutto, il denaro, che, in un sistema capitalistico, qual è il nostro, rappresenta la risorsa economica per eccellenza. In natura, la risorsa economica si acquisisce o con il genio e l’industriosità dell’individuo, ossia con l’abilità e col lavoro, oppure con la forza, o con entrambi. In uno Stato di diritto, le risorse si acquisiscono in virtù della legge positiva, che può assegnare il titolo prescindendo sia dal lavoro che dalla forza, per esempio, a seguito di una vincita o di un lascito per beneficenza o per diritto di successione.
Col termine «proprietà» (dal latino proprius, che appartiene ad una specifica persona giuridica e che è soltanto suo), o «proprietà patrimoniale», intendo il diritto di signoria riconosciuto dalla legge, ossia il diritto di godere e disporre di un bene materiale che, secondo il Codice civile, può essere acquisito in uno dei seguenti modi: per occupazione di cose che non appartengono a nessuno (art. 923); per accessione (per es., il proprietario di un terreno acquisisce anche la proprietà dei beni che vi sono incorporati, come piantagioni e costruzioni) (art. 934); per specificazione, cioè a seguito della trasformazione di una cosa mediante il lavoro (ad es., se uso del cotone di un altro per ricavarne una camicia, la camicia è mia) (art. 940); per usucapione, ossia per possesso continuativo di una cosa per almeno venti anni (art. 1158); per contratto (art. 1376); per successione mortis causa (art. 456).
La proprietà è tutelata dalla legge più di qualsiasi altro diritto. Solo il diritto di proprietà, infatti, è concesso senza limiti, mentre non esiste, per esempio, un diritto di libertà illimitato. Al proprietario è data facoltà di godere dei suoi beni “in modo pieno ed esclusivo” (art. 832 c.c.), può prestarli o darli in regalo, venderli o affittarli, cederli in beneficenza o trasferirli in eredità, perfino di non usarli o distruggerli, “giacché il distruggere, consumare, demolire, ecc. sono attività che fanno parte del godimento, essendo ad esso, dal punto di vista giuridico, estraneo il concetto economico della utilizzazione della cosa per il soddisfacimento di un bisogno” (TABET, OTTOLENGHI 1968: 18). In definitiva, la proprietà è un diritto di signoria su un bene riconosciuto dalla legge senza che sia previsto alcun obbligo di relazione tra il bene in questione e i bisogni del titolare del bene medesimo. Perfino il non uso, infatti, è considerato “un legittimo modo di godimento del proprietario” (MAZZITELLI 2008: 566-7).
Col termine «possesso» o «proprietà semplice» indicherò invece l’utilizzo esclusivo di una risorsa, nei limiti in cui questo utilizzo è strettamente legato ai bisogni o al lavoro di una o più persone. Il possesso rimane in essere solo finché la risorsa in questione è oggetto di lavoro o di uso, mentre viene perso in caso contrario. A differenza della proprietà patrimoniale, il possesso non può essere trasmesso in eredità, né può appartenere a qualcuno a cui non serva o di cui non costituisca oggetto di lavoro. Ora, se guardiamo il possesso dal punto di vista del soggetto possidente, noteremo che in nulla esso differisce dalla proprietà se non per il fatto di riferirsi unicamente a soggetti viventi e alle loro reali necessità personali (anche il possesso, infatti, è una proprietà esclusiva e piena) e per il fatto che il possesso è tipico delle società evolute ed è sempre frutto di un accordo o di una legge positiva, e mai della forza.

6.2. Proprietà e democrazia
Possesso e Proprietà potrebbero generare due modelli di società alternativi, qualora l’uno o l’altra fossero impiegati in modo esclusivo. Più precisamente, la proprietà genera la DR, il possesso la DD. Ora, poiché il modello DD ancora non esiste, come non esiste una società fondata sul possesso, in questa sede mi limiterò ad approfondire il concetto di proprietà, sia perché è più facile da comprendere, sia perché ci consente di cogliere indirettamente il significato del possesso. In particolare, tenterò di descrivere le basi su cui la proprietà poggia e di dimostrare che ha ragione Luigi Ferrajoli quando afferma che la proprietà patrimoniale non è un diritto fondamentale, ma piuttosto il prodotto della volontà della classe dominante. Alla fine della mia dissertazione dovremmo essere in grado di comprendere perché la proprietà patrimoniale “non è di casa nella democrazia” (LINDBLOM 1996: 27) e perché dovremmo desiderare in sua vece il possesso.

6.3. La proprietà illimitata non è un diritto democratico
Se la proprietà fosse un diritto fondamentale, essa dovrebbe essere confrontabile con gli altri diritti fondamentali, come lo sono la vita e la libertà. Ebbene, la vita e la libertà, che pure sono considerati unanimemente i diritti per eccellenza, sono relativi e limitati, come tutto ciò che è umano. L’espressione «diritto fondamentale» alla vita implica, infatti, il riferimento ad una vita che abbia un minimo di dignità, e mal si applica laddove la vita non sia più considerata degna di essere vissuta, com’è il caso di molti suicidi o di personaggi divenuti tristemente noti, come Terri Schiavo, Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, per i quali la vita non era, o poteva non essere, un valore desiderabile. E poi c’è la realtà naturale della morte, che, oltre a mettere in discussione il diritto alla vita, impone la necessità di considerare anche il «diritto» di poter morire, anche qui possibilmente con un minimo di dignità. Considerazioni analoghe valgono per la libertà: la libertà che serve all’individuo per poter mettere in luce i propri talenti e realizzare il proprio progetto di vita, non è la stessa libertà di cui alcuni si servono per strumentalizzare altri. La prima caratterizza i regimi democratici ed è da noi considerata buona, la seconda quelli autocratici ed è da noi considerata perversa. Dunque, anche il diritto alla libertà ha dei limiti. In ogni caso, i diritti alla vita e alla libertà non vengono trasmessi in eredità ai figli e a nessun altro, ma cessano con la morte della persona.
Se perfino i diritti alla vita e alla libertà sono relativi e limitati, perché mai il diritto proprietario dovrebbe fare eccezione? Anche la proprietà, infatti, può servire all’individuo per l’esercizio dei suoi diritti, e in ciò essa può essere accostata alla libertà e alla vita, sia pure limitatamente al fatto che essa sia correlata alla soddisfazione dei bisogni e ai meriti lavorativi della persona. Ma un diritto alla proprietà illimitata che, passando di generazione in generazione, diventi patrimonio dinastico, non è più lo stesso diritto, poiché non serve più alla persona e può anzi costituire uno strumento di potere e di dominio dell’uomo sull’uomo. La prima forma di proprietà si addice alla DD, la seconda alla DR.
Ora, poiché io sto sostenendo la causa DD, cercherò di dimostrare tre cose: primo, che una proprietà che non sia esclusiva della persona che l’ha costituita e che non cessi con la morte di questa, ma diventi un bene di famiglia trasmissibile in eredità ai discendenti, ubbidisce al vecchio principio di forza, tipico dei governi autocratici, e ostacola la democrazia; secondo, che il diritto alla proprietà non costituisce sempre un fattore positivo, potendosi accompagnare a conseguenze disastrose, a seconda che la proprietà venga legata ai diritti della persona vivente o sia trasmessa ereditariamente, come se, passando in mano agli eredi, essa dovesse appartenere ancora al defunto o rientrare nella sfera delle sue volontà; terzo, che, benché noi siamo ormai abituati a considerarla un fatto del tutto naturale e positivo, la trasmissione ereditaria dei beni è invece un fatto culturale, che dipende dalla volontà umana e che presenta aspetti positivi e negativi, che è opportuno conoscere. A quest’ultimo proposito, ritengo illuminante il pensiero di Somaini, che riporto per esteso.
“i) Gli argomenti che si possono portare contro la liceità della trasmissione ereditaria sono fondamentalmente due: il primo è che gli eredi non hanno alcun titolo speciale per ricevere i patrimoni in questione, in quanto non hanno fatto nulla per ottenerli: il secondo è che la trasmissione ereditaria di ricchezze ineguali viola un principio di uguaglianza delle opportunità.
ii) Gli argomenti opposti (a favore della liceità) sono essenzialmente tre: il primo è che il problema non va posto dal punto di vista di chi riceve, ma da quello di chi dà, e che la proibizione della trasmissione ereditaria sarebbe una grave e ingiustificata limitazione del diritto di proprietà; il secondo è che una proibizione che sia limitata alla trasmissione ereditaria a discendenti e non si estenda a qualsiasi forma di donazione a terzi, sarebbe ingiustamente discriminatoria, in quanto penalizzerebbe proprio quei passaggi di ricchezza cui comunemente si riconosce una maggiore valenza etica; il terzo è che i lasciti ereditari non sono l’unico (e oggi neppure il principale) fattore di ineguaglianza nelle condizioni di partenza, e che le differenze decisive sono quelle che riguardano ciò che le famiglie possono fare per la formazione di capitale umano e nella trasmissione di capitale relazionale” (2002: 298-9).
Da quanto sopra si evince che il principio ereditario della proprietà non presenta solo luci, ma anche ombre, e che la sua ragion d’essere è tutt’altro che categorica. In altri termini, non siamo costretti ad accettarlo in modo acritico, ma possiamo anche respingerlo, qualora dovessimo ritenerlo immorale o non conveniente. Dobbiamo comunque essere consapevoli che, a seconda di come ci poniamo nei confronti di questo principio, potremo, come abbiamo osservato, dare origine a due modelli di società molto diversi. In particolare, e questa è la tesi che sosterrò, la proprietà patrimoniale è incompatibile con i principi democratici.

6.4. La proprietà privata DD: il possesso
La DD parte dalla costatazione che l’intelligenza e la complessione, i tratti somatici e psicologici, le virtù e i vizi dei padri non si ereditano in modo prevedibile e che da un padre geniale può nascere un figlio inetto, allo stesso modo in cui da un padre inetto può nascere un figlio geniale. Pertanto essa ritiene ingiusto, oltre che non conveniente, sia che un figlio inetto erediti e amministri le ricchezze prodotte da un padre geniale, sia che un figlio geniale sia impedito di esprimere le sue potenzialità a causa della dappocaggine del padre. Al contrario, la DD vuole che ciascuno abbia ciò che si merita, ed per questo che essa riconosce il possesso, ma non la proprietà.
La terra è di tutti, così afferma la Bibbia. La DD concorda e va oltre: non solo la terra è di tutti, ma anche una parte del nostro stesso lavoro e del nostro ingegno è di tutti. Non c’è nulla di cui un individuo possa dire «questo è assolutamente mio e ne faccio quello che mi pare». Al fornaio che dirà «questo pane è mio perché io l’ho infornato e io ho impastato la farina», si potrà obiettare: «chi ha arato la terra? Chi ha seminato il grano? Chi lo ha trebbiato? Chi lo ha macinato? Chi ha costruito il forno?». Il fornaio, a sua volta, potrebbe ribattere: «ho fatto tutto io». Bene, nemmeno in questo caso gli sarebbe lecito dire di quel pane «questo è assolutamente mio e ne faccio quello che mi pare»! Infatti, c’è sempre qualcuno che gli ha insegnato il mestiere e ci sono coloro che quel pane acquistano e consumano. Senza costoro quel signore non sarebbe divenuto fornaio e non avrebbe nemmeno pane da vendere. Lo stesso vale per il pittore, il cantante, l’atleta e qualsiasi altro lavoratore individuale, anche se ciò a qualcuno potrebbe sembrare strano. Cosa c’è, infatti, di più esclusivo e personale di una produzione artistica o di una performance sportiva? Eppure, nemmeno in questi casi si può parlare di proprietà assoluta. Nessuno, infatti, penserebbe di produrre opere artistiche, né si esalterebbe in prestazioni atletiche se non ci fosse un pubblico capace di apprezzare e comprare quel tipo di prodotto. Anche in questi casi, dunque, una parte di merito va accordata alla società nel suo insieme, ossia al Popolo. E così in tutte le attività umane.
In un paese DD, è il Popolo, incarnato nelle persone dei genitori, che chiama alla vita ogni cittadino, gli riconosce il diritto ad una vita dignitosa e gli impartisce un’educazione civica e una formazione professionale. Tutti i cittadini sono perciò debitori nei confronti del Popolo, ed è solo per convenzione che siamo soliti dire che il pane è del fornaio, il quadro dell’artista, la prestazione sportiva dell’atleta, così com’è per convenzione che affermiamo «questo vestito e mio», «quest’auto è mia», «questo orologio è mio», e via dicendo. Si tratta di affermazioni relative, ancorché entrate ormai nell’uso comune. In realtà, nessuno può usare il pronome «io» in modo assoluto, come se il Popolo non vi avesse parte alcuna. L’individuo, perciò, deve sapere che ha ricevuto ogni bene dal Popolo e al Popolo dovrà restituire ogni cosa al momento della sua morte. In DD, infatti, vale il principio che tutto appartiene al Popolo, tutto proviene dal Popolo e tutto deve ritornare al Popolo.
Nel possesso la DD vede “una condizione favorevole (e talvolta addirittura necessaria) per alcune libertà individuali”, oltre che “una condizione necessaria per un solido radicamento e per un buon funzionamento della democrazia” (SOMAINI 2002: 231-3). Ma con alcune limitazioni: il possesso deve servire ai bisogni della persona o essere legato ad un’attività lavorativa di quella persona, e non deve mai assumere dimensioni tali da divenire uno strumento di potere e di dominio dell’uomo sull’uomo, ma deve rimanere contenuto entro i limiti delle naturali differenze fra gli individui (cf. cap. 49).
La DD riconosce due forme di possesso: un possesso di base e un possesso da lavoro. Il primo corrisponde al reddito minimo garantito (RMG) ed è uguale per tutti, e un possesso da lavoro, cha cambia da soggetto a soggetto. Il possesso di base “è lo zoccolo di risorse a partire dal quale un individuo può esistere di per se stesso, senza dipendere da un padrone o dalla carità altrui” (CASTEL 2004: 13). Esso inoltre “garantisce la sicurezza di fronte agli imprevisti dell’esistenza, alla malattia, all’infortunio, alla miseria di chi non può più lavorare” (CASTEL 2004: 13). Così inteso, il possesso di base dovrebbe rappresentare “l’istituzione sociale per eccellenza” (CASTEL 2004: 17). Il possesso da lavoro è, invece, l’insieme di beni che un cittadino è in grado di guadagnarsi con le sue abilità, con il suo intuito, con la sua fortuna e con i suoi meriti. Esso rappresenta il doveroso riconoscimento del talento, della virtù e della volontà individuali, che costituiscono la causa prima del progresso e del benessere degli uomini.
La proprietà rappresenta un valore democratico solo se è acquisita col lavoro, è proporzionata ai meriti e serve ai bisogni e all’esercizio dei diritti democratici di colui che l’ha acquisita. Se la proprietà esce da questi schemi può diventare un valore non-democratico o anti-democratico. Così, ad esempio, una p. che derivi da un’azione di conquista o raggiro lede il principio di non limitare senza giusta causa la libertà altrui, una p. che derivi da vincita al gioco o da eredità lede il principio del merito, una p. che non serva ai bisogni della persona e all’esercizio dei suoi diritti democratici è deleteria, sia perché può essere usata (e spesso viene usata) per dominare altri uomini, sia perché determina pericolose disuguaglianze di opportunità. Come ha giustamente osservato Henry Sidgwick, “Un uomo che nasce senza alcuna eredità […] non solo è molto meno libero di coloro che possiedono delle proprietà, ma anche è meno libero di quel che sarebbe se non ci fosse stata alcuna proprietà” (1995: 308-9).
Il fatto che la proprietà debba essere connessa al lavoro non significa che essa dev’essere necessariamente un prodotto del lavoro, ma semplicemente che dev’essere uno strumento di lavoro, com’è il caso della terra per il contadino o di una pensione per un affittacamere. Il lavoro non produce, né crea, la terra o la pensione; semplicemente ne accresce il valore e giustifica il loro possesso da parte del contadino o dell’affittacamere. Pertanto, l’uomo che lavora la terra o gestisce una pensione non ha diritto alla proprietà di quella terra o di quella pensione, ma solamente il diritto di “ricevere un adeguato compenso per il suo lavoro” (SIDGWICK 1995: 310).

6.5. La proprietà privata DR come privilegio
Teoricamente, gli art. 42 e 43 della costituzione inseriscono i principi di “funzione sociale” e di “espropriazione”, che salvaguardano il supremo interesse della collettività e smorzano il carattere perentorio e assoluto del diritto di proprietà sancito dallo statuto albertino. Più precisamente, la costituzione stabilisce dei limiti alla proprietà, “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (art. 42). Nella pratica, tuttavia, non è vero che la proprietà è accessibile a tutti, né è vero che essa svolge una funzione sociale, “perché la nozione di funzione implica il dovere di agire nell’interesse altrui, ed è antinomico con il concetto di diritto soggettivo” (TABET, OTTOLENGHI 1968: 25). In realtà, la legge sembra più orientata a tutelare gli interessi del singolo proprietario che quelli della comunità. Ecco come si esprime il Codice civile: “Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità” (art. 834). Insomma, l’espropriazione è contemplata come eccezione piuttosto che come regola e comunque dev’essere compensata adeguatamente. Essa non ubbidisce al principio «Espropriamo una parte dei tuoi beni, perché sei diventato troppo ricco e costituisci un pericolo per la democrazia», ma al principio «Ci dispiace doverti espropriare di una parte dei tuoi beni, ma ti compensiamo con un’altra risorsa di pari valore». In altri termini, non è messo in discussione il diritto di proprietà illimitata, ma semplicemente si enunciano dei limiti qualitativi alla proprietà, da osservare solo in caso di comprovato interesse generale.
La legge non è altrettanto incisiva nel tutelare la «funzione sociale». Per esempio, essa non riconosce una quota minima di possesso per tutti a salvaguardia dei diritti della persona, né indica un limite, oltre il quale la proprietà potrebbe essere usata come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo. Insomma, la legge non garantisce un minimo di proprietà a tutti, allo stesso modo in cui garantisce il diritto alla proprietà illimitata.
La DR consente che i beni acquisiti col lavoro da un singolo cittadino diventino poi patrimonio di famiglia, vadano cioè a beneficio di coniugi, figli, parenti o altre persone giuridiche, indipendentemente dal fatto che abbiano contribuito alla costituzione del patrimonio stesso. La successione ereditaria può avvenire per via legittima o per via testamentaria. La successione legittima o mortis causa (art. 536-549, 565-586 c.c.) attribuisce una quota di eredità, la cosiddetta «legittima», ai parenti prossimi del defunto, “anche contro la volontà espressa dal defunto nel testamento” (MAZZITELLI 2008: 417) ed è fondata sull’”esigenza di tutelare la famiglia” (MAZZITELLI 2008: 432). Fra i successibili indicati dagli art. 566-86 del codice civile figura lo Stato, che subentra solo nel caso in cui il defunto non abbia eredi.
La successione testamentaria (art. 587-712) lascia al testatore la facoltà di designare i chiamati alla successione. “L’eredità si acquista con l’accettazione” (art. 459 c.c.), ossia con la semplice manifesta o tacita volontà del chiamato a ricevere i beni del defunto. La successione testamentaria si fonda sull’esigenza di tutelare “l’interesse del testatore a non veder disperso il suo patrimonio e ad imprimervi una certa destinazione per il periodo successivo alla sua morte” (MAZZITELLI 2008: 441). La stessa Maria Mazzitelli annota, tra parentesi: “(se così non fosse, infatti, nessuno avrebbe interesse ad accumulare ricchezza, con grave pregiudizio dell’economia nazionale)” (2008: 374), ma non chiarisce in che modo e attraverso quali modalità l’evitamento della concentrazione della ricchezza privata si accompagnerebbe a “grave pregiudizio dell’economia nazionale”.
Quello che invece è certo è che, accettando il principio ereditario della proprietà, il sistema DR si fa artefice di due cruciali operazioni, entrambe inique: la prima rende il diritto di proprietà indipendente dal lavoro individuale, la seconda lo estende ad un’istituzione collettiva, quale è la famiglia o una qualsiasi altra impresa, e non lo limita invece alla persona individuale, come sarebbe più opportuno. Così stando le cose, il diritto di proprietà, anziché svolgere un’importante funzione sociale, finisce per sanzionare situazioni di privilegio e disuguaglianze di opportunità, che interferiscono coi princìpi democratici della parità dei diritti, della coesione sociale e della massimizzazione del capitale umano. Secondo Piero Calamandrei, il principio di proprietà diventa, “attraverso l’eredità illimitata, libertà per i ricchi di accumulare ricchezze sempre più sconfinate, privilegio dei nati ricchi di continuare ad essere ricchi senza lavorare e, attraverso lo sviluppo della grande industria, creazione di monopoli capitalistici, altrettanto tirannici quanto erano stati nell’ancien régime, i privilegi politici, che la rivoluzione francese aveva spezzato” (1995: 132-3).
Tra le conseguenze del diritto di successione spiccano per nefandezza la formazione di veri e propri imperi finanziari (che spesso non hanno altra ragion d’essere che come strumenti di potere) e una disuguaglianza sociale generalizzata. Un’altra abominevole conseguenza è l’affermazione del principio di separazione della ricchezza dai meriti, così che un uomo ricco è considerato grande, indipendentemente da come si è arricchito (le sue qualità morali, il suo impegno personale, il suo lavoro non contano, o sono posti in secondo piano), mentre un uomo dappoco, che erediti una grande azienda o un regno, viene rispettato e onorato come imprenditore o sovrano, anche se poi, in realtà, sono altri che amministrano per lui l’azienda o lo Stato. Insomma, la ricchezza è virtù in sé e la povertà un difetto in sé; il ricco è un cittadino di serie A, il povero un cittadino di serie B, e la società è sempre duale, mai democratica.
A rimetterci è lo Stato o, per meglio dire, la coesione dello Stato. Il fenomeno era già noto all’abate de Mably, che così scriveva nella seconda metà del XVIII secolo: “la proprietà ci divide in due classi, in ricchi e poveri. I primi preferiranno sempre la loro fortuna personale a quella dello Stato e i secondi non ameranno mai un governo e delle leggi che permettano che essi siano infelici” (1965: 239). A questa mancanza di coesione spontanea i paesi DR non rispondono creando condizioni di giustizia sociale tali da rendere desiderabile per i cittadini l’appartenenza alla propria nazione, ma piuttosto preferiscono ricorrere a strumenti, come il controllo dell’informazione, un sistema scolastico omologante, la demagogia, politiche sociali ad hoc, leggi solo apparentemente uguali per tutti, mezzi di coercizione che si avvalgono anche di forze poliziesche e militari. Ed è proprio in questi campi, nel sapiente equilibrio di questi fattori, che si misura l’abilità degli uomini di governo. Ciò non toglie che la società è divisa al suo interno da profonde spaccature. La sua coesione è soltanto apparente e poggia essenzialmente sulla propaganda e sulla coercizione.

6.6. Storia della proprietà patrimoniale
L’idea di proprietà è così radicata nel nostro diritto e nelle nostre coscienze che, dal momento che sto proponendo un sistema politico senza proprietà, sento il bisogno di spiegare meglio la portata rivoluzionaria della mia proposta e lo faccio raccontando in che modo l’idea di proprietà si è affermata nella storia. Dalla conoscenza storica, infatti, dovrebbero emergere tre cose: che, in epoca preistorica, la proprietà privata è sconosciuta; che la posizione dell’uomo nei confronti della proprietà è cambiata a seconda dei tempi e delle culture; che la proprietà privata di tipo capitalistico non è più vecchia di due tre secoli.

6.6.1. Preistoria
L’idea di proprietà privata della terra è necessariamente assente nella preistoria, in quanto incompatibile con la pratica del nomadismo. Questo fatto è noto da tempo. Ne parla, per esempio, l’abate de Mably in un’opera, Della legislazione, pubblicata nel 1776: “se rimontiamo fino alle origini delle nazioni, i documenti non attestano forse che in origine esse erano nomadi?” (1965: 228). E se erano nomadi, come potevano essere proprietari di terre o case? Secondo Marx, la proprietà si afferma solo dopo la diffusione della pratica dell’agricoltura e, almeno inizialmente, si deve trattare non di un diritto individuale, bensì di una proprietà dell’intera comunità tribale, la quale, peraltro, occupa quel tanto di terra che è in grado di lavorare e che è sufficiente per consentire la conservazione e la riproduzione dei propri membri. Di norma, nei villaggi neolitici, fatta eccezione per l’abbigliamento, gli utensili e le armi di uso personale, tutto il resto appartiene al dio tutelare ed è semplicemente amministrato dal sacerdote o dal re. Il contadino lavora la terra che il dio gli ha assegnato e si comporta in modo solidale con gli altri membri della comunità, ciascuno dei quali svolge un ruolo particolare, che è quello assegnatogli dallo stesso dio o dal suo rappresentante in terra. Essendo di proprietà di un dio, in realtà la terra non appartiene a nessun individuo particolare ma all’intera comunità che vi risiede, anche se è amministrata da un rappresentante umano del dio stesso.
La proprietà collettiva del suolo si conserva a lungo nel tempo “e anche quando passa ad essere proprietà privata il rapporto dell’individuo verso di essa si presenta mediato dal suo rapporto con la comunità” (MARX 1970: II, 449). Insomma, la terra è di tutti, ma il lavoro è di chi lo svolge.
Di fatto, la terra appartiene a chi la lavora, a condizione che sia anche in grado di difenderla da eventuali malintenzionati, che potrebbero tentare di appropriarsi dei suoi beni o di espropriarla. Questo principio vale in primo luogo per i membri della stessa tribù, ciascuno dei quali è tenuto a rispettare il lavoro altrui e a non derubarne i frutti. In caso di violazione, finché non dispone di una milizia armata, la comunità può intervenire solo con la condanna morale e l’isolamento del reo. Lo stesso principio vale anche, e a maggior ragione, nei confronti di terzi, di nemici esterni che insidiano la terra: in questo caso però, l’esito più probabile è lo scontro fisico, che talvolta può degenerare in guerra aperta fra due tribù, che intanto potrebbero essersi compattate sotto la guida di un condottiero.

6.6.2. Protostoria
La situazione comincia a cambiare nella protostoria, quando, a causa di un importante incremento demografico, il rischio di scontri armati è tale da indurre le singole famiglie proprietarie ad organizzare una difesa sempre più stabile ed efficace dei propri beni. Da questo momento l’idea di proprietà privata si diffonde prepotentemente fra le comunità umane, fondandosi, quasi esclusivamente, sul principio di forza. “Di fatto la proprietà naturale è tollerata solo finché manca la forza per rovesciarla e non dura oltre il momento in cui uno più forte se ne impadronisce. Creata da una forza arbitraria, essa deve in ogni momento temere una forza più potente” (MISES 1990: 61-2). La proprietà si conquista con la forza e si difende con la forza.
In certe aree geografiche, il ricorso indiscriminato ed arbitrario alla forza genera condizioni sociali di tale insicurezza e precarietà da risultare intollerabili e induce le singole tribù a scegliersi un capo in grado di organizzare azioni di difesa, ma anche di attacco. Un condottiero può riunire sotto di sé un certo numero di famiglie e di clan solo a due condizioni: o per difendere le loro terre da eventuali minacce esterne o per organizzare una guerra di aggressione, in questo caso con la promessa che, in caso di vittoria, la terra conquistata verrà distribuita. In una prima fase, i nemici vinti vengono sterminati, ad eccezione delle femmine, che vengono invece integrate allo scopo di riparare, il più rapidamente possibile, le perdite umane dei vincitori, ma, allorché la guerra diventa una pratica abituale, comincia a diffondersi un’idea nuova: rendere schiavi i nemici e costringerli a lavorare la terra a favore dei nuovi padroni, ossia dei conquistatori. In sostanza, la guerra genera la proprietà, la proprietà alimenta la guerra.
A guerra finita, il condottiero vittorioso non solo distribuisce le terre conquistate, come aveva promesso, ma s’impegna anche a tutelare il diritto di proprietà delle stesse, servendosi a tale scopo di una milizia armata che rimane costantemente al suo servizio. Quando ciò avviene, il condottiero diventa monarca e la sua volontà è legge, il che vuol dire che la prima forma del diritto corrisponde alla volontà del sovrano, la quale viene imposta sotto la minaccia delle armi. Nasce così lo Stato. Da questo momento, la distribuzione della proprietà privata non dipende più solo dall’uso indiscriminato e arbitrario della forza o della guerra, ma anche dalla volontà del sovrano, o dalla legge dello Stato, o dal diritto. Sono questi i principali elementi di novità apportati dallo Stato: la “completa separazione tra lavoro e proprietà” (MARX 1970 II, 142) e l’istituzionalizzazione della proprietà come diritto.
Con il frutto delle terre e il lavoro degli schiavi, i monarchi prendono al loro servizio funzionari e artigiani, fanno erigere templi e palazzi ed esercitano un potere assoluto, che viene posto sotto l’egida di un dio tutelare. Dai sudditi essi esigono un tributo, che può essere un lavoro o un bene materiale, e chi non ci sta, o non è in grado di pagare il suo debito, ha due possibilità: o tentare la fuga e sparire o organizzare un gruppo di potere alternativo, di solito una banda armata, che per lo più è destinata a vivere di espedienti e di rapine ai margini dello Stato.

6.6.3. Le prime civiltà
Con l’affermarsi dei primi Stati e delle prime Civiltà, gli uomini finiscono con l’accettare la proprietà privata e col ritenere «normale» che il più forte domini sul più debole. Non importa chi sia il più forte: può essere chi dispone dell’esercito più numeroso, o chi sa organizzarsi meglio, o chi può contare su armi più evolute; può essere il più scaltro o il più saggio, il più spietato o, semplicemente, il più fortunato; in ogni caso, chi vince è sempre il migliore, e il migliore ha il diritto di imporre la sua legge, mentre, al contrario, chi soccombe è bene che rimanga sottomesso. Ma poiché la forza si rivela un mezzo molto dispendioso e poco adatto a rendere stabile una conquista o una proprietà, nasce l’esigenza di rendere più solida possibile la legittimità della conquista o della proprietà, di giustificarle cioè, in modo inequivocabile, agli occhi della gente. Due sono i principali mezzi di legittimazione: la religione, come nel caso degli ebrei, che fanno risalire la proprietà della terra alla prescrizione dell’unico vero Dio (Num 33, 53-4), e la cultura, com’è il caso di Roma, che rivendica il diritto di estendere il suo dominio su popolazioni di rango inferiore. In entrambi i casi, però, il principio di forza rimane ben evidente, solo che esso cessa di essere impiegato come mezzo esclusivo per dirimere le contese e diventa uno strumento alternativo e, almeno in teoria, secondario, uno strumento che, a parole, si pone al servizio di un dio o di una legge, ma che, in realtà continua ad essere primario e fine a se stesso.

6.6.4. Il mondo greco-romano e l’alto medioevo
Benché nell’antichità greco-romana la proprietà privata sia già affermata da tempo, molti vedono in essa la causa prima della guerra e, dunque, un pericolo per la pace, una fonte di discordia e di violenza, un’istituzione da porre sotto inchiesta o sotto accusa. Ed ecco allora che Platone immagina una Repubblica fondata su un comunismo di vertice, ossia sulla comunità egalitaria e non possidente di filosofi, che dovranno governare la società della polis senza essere distratti da interessi personali e, pertanto, rinunciando a qualunque proprietà (Rep. 415a, 417a-b, 465c-d). Diverso, ma non del tutto dissimile, è il punto di vista di Aristotele, che, pur riconoscendo all’uomo il bisogno di proprietà, che gli consenta di condurre un’esistenza dignitosa (Et. Nic. 1178b, 35), si dichiara contrario tanto alla ricchezza smodata quanto alla povertà estrema e indica, come condizione ideale per una polis, quella in cui tutti i cittadini appartengano ad una fascia sociale media (Pol. 1261ss). Riserve sulla proprietà vengono espresse anche da cinici e stoici, presso i quali è opinione diffusa che, nella condizione originaria, quando cioè ancora non si conoscevano né la proprietà né le strutture di potere, gli uomini vivevano in pace e in armonia (Seneca, Epistola 90, 37ss; Ovidio, Metamorfosi I, 89ss; Tacito, Annales III, 26). È l’avidità degli uomini, sostengono, a dare origine alla proprietà privata. Anche Cicerone, che pure riconosce al cittadino il diritto alla proprietà, acquisito per occupazione, per conquista o per legge, non può fare a meno di ammettere che esso non è un fatto di natura (De Off. I, 7).
Ma questa è solo la teoria. La realtà è ben diversa, ed è la realtà della società duale, che caratterizza pressoché tutta l’età antica e dove si possono distinguere nettamente almeno due classi di cittadini, ciascuna detentrice di diritti diversi: i cittadini di serie A e quelli di serie B, i patrizi e i plebei, gli aristocratici e la massa, i nobili e il popolo, i forti e i deboli, i proprietari e i nullatenenti, i privilegiati e gli esclusi. I primi vogliono lo status quo e l’ordine sociale, i secondi il cambiamento e il disordine. Il dissidio fra le due compagini è così profondo e insanabile da degenerare talvolta in scontri violenti, tumulti e disordini sociali, che inducono le classi dominanti ad escogitare opportuni rimedi. Uno di questi rimedi è la legge emanata dall’imperatore Domiziano, la quale stabilisce che il mestiere dei padri si eredita: il figlio dello schiavo rimane schiavo e quello del contadino non potrà mai aspirare a divenire un ricco proprietario terriero, cosa che, invece, spetta al figlio del nobile. La conseguenze è che ciò che uno sarà nella vita non dipende dai propri meriti, ma viene stabilito dalla legge e garantito con la forza.
Nei confronti di una realtà così cruda, il pensiero degli studiosi continua ad esprimere posizioni di critica su ricchezza e povertà, ed è soprattutto dal cristianesimo che si levano i più severi moniti contro il rischio legato all’eccessiva concentrazione della proprietà. I Vangeli, infatti, demonizzano la ricchezza (Mt 6,19; 19, 23-4; Lc 16,13) e le prime comunità cristiane praticano la solidarietà caritatevole e la comunione dei beni (At 2,44-5; 4,32). Coerentemente con questi princìpi, i pensatori cristiani del II-III secolo, come Clemente Alessandrino (Paedagogus III,6) e Tertulliano (De patientia 7), esprimono parole di disprezzo per il denaro e ispirano il monachesimo. Fino all’inizio del IV secolo, i cristiani rimangono sostanzialmente fermi in questa posizione. Infatti, “Secondo la concezione patristica la proprietà privata della terra è inconcepibile, come inconcepibile è la proprietà privata dell’aria e delle luce del sole. L’aria, la luce e la terra non appartengono agli uomini ma a Dio; gli uomini possono soltanto averla in uso” (KAZHDAN 1995: 64). Che la proprietà privata non sia un fatto di natura, ma solo una conseguenza del peccato originale, è ciò che credono ancora sant’Ambrogio e sant’Agostino, ma qui siamo ormai giunti al IV-V secolo, un periodo in cui la dottrina cristiana sulla proprietà e sulla ricchezza è molto cambiata rispetto a quella espressa nel Nuovo Testamento.
Già agli inizi del IV secolo, le esortazioni evangeliche a non accumulare ricchezze su questa terra sono state dimenticate e i cristiani non si oppongono ai monarchi che riconoscono il diritto di proprietà privata, la quale, verosimilmente, costituisce un mezzo indispensabile per assicurare loro l’appoggio delle grandi famiglie. Ne risulta una società duale, che è la fotocopia di quasi tutte le società che si sono succedute nell’età antica e la cui causa è da individuare nell’esistenza della proprietà privata, che è sostanzialmente considerata un male, necessario e inevitabile per quanto si voglia, ma pur sempre un male. Tale è il tratto culturale dominante in tutta l’età antica e l’alto medioevo.

6.6.5. Il basso medioevo
Questo quadro comincia a cambiare nel basso medioevo. “I primi, decisivi passi verso una legittimazione definitiva della proprietà privata risalgono a Tommaso d’Aquino” (EUCHNER 1997: 105), ma è Bartolo da Sassoferrato ad esprimere il moderno principio giuridico, che verrà poi ripreso dal Codice napoleonico e dalle Costituzioni contemporanee, secondo cui la proprietà è un diritto sancito dalla legge. Non si tratta di una novità assoluta ma, più semplicemente, di un ritorno a quella che era stata la posizione di Cicerone: anche se non è un fatto di natura, la proprietà è un diritto di legge e lo Stato ha il dovere di tutelarla. Questo passaggio però non è ancora maturo e ben definito.
Così, il significato profondo della proprietà dipende da che cosa s’intende per «legge». Se la legge origina dalla natura o da Dio, allora la proprietà è un diritto naturale o divino e, dunque, indiscutibile; se invece la legge origina dalla volontà umana, allora la proprietà è un diritto creato dall’uomo e, dunque, opinabile. In virtù della loro profonda religiosità, i medievali erano poco propensi ad accettare questa seconda ipotesi e molti di essi continuavano a credere che il feudo non appartenesse solo al feudatario, ma anche, in ultima analisi, all’imperatore e a Dio: una posizione, questa, molto vicina a quella degli antichi egizi, ma anche a quella degli ebrei.

6.6.6. Età moderna
Inoltre, ancora nella prima età moderna, la proprietà privata continua ad essere vista, almeno in parte, come un male necessario di cui servirsi con moderazione. Così, Machiavelli (1469-1527) considera l’eccessiva brama di ricchezza nociva per lo Stato e Tommaso Moro (1478-1535) propone un modello di società, fondato sull’uguaglianza dei cittadini e sull’abolizione della proprietà privata e del denaro. Le posizione dei due studiosi si inseriscono in contesti di ragionamento molto diversi: nel primo caso, si tratta di semplice opportunismo politico, nel secondo caso di un pensiero più puro e fine a se stesso che, proprio per questo, merita un breve approfondimento.

6.6.6.1. Tommaso Moro è un grande uomo politico nell’Inghilterra dei Tudor, in un periodo, quello compreso fra il 1504 e il 1532, in cui il paese è in fase di crescita economica e demografica, grazie anche all’espansione commerciale, che vede affacciarsi sulla scena nazionale e internazionale nuovi soggetti politici, mentre la società è ancora di tipo feudale e incentrata nella figura del sovrano, che pretende di detenere il monopolio del potere in tutti i campi, compreso quello religioso, a fronte di una massa popolare costretta a vivere ai limiti della sussistenza. Grazie ad una personalità che coniuga un’acuta intelligenza a sani princìpi morali, Moro capisce che quella società è profondamente ingiusta e che è possibile immaginare una società migliore. Come debba essere questa società migliore, l’uomo politico lo spiega in un’opera rimasta giustamente celebre, Utopia, pubblicata nel 1516, in cui traspare la consapevolezza dell’autore che “non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta, o che prosperino le cose dei mortali, senza abolire del tutto la proprietà privata” (1981: 51).

Questo atteggiamento di amore/odio nei confronti della proprietà privata trova il suo fondamento in due presunte innegabili verità: da un lato la constatazione che un minimo di ricchezza è necessario al fine di consentire alla persona una vita dignitosa, dall’altro lato l’evidenza che la concentrazione di ricchezza oltre un certo limite suscita discordie e guerre, ed è quest’ultimo punto che alimenta il dibattito politico sulla proprietà privata e ne impedisce il consenso universale.
Ciò che crea perplessità non è il principio di proprietà in sé, che è ormai accettato pressoché da tutti, quanto l’evidenza che la grande proprietà fondiaria è ottenuta con la violenza “e conservata soltanto con la violenza” (MISES 1990: 415). Dunque, è, per sua stessa natura, contraria ad ogni principio etico di equità e giustizia. “Nella società feudale – aggiunge Mises – i più forti riescono a conservare la loro proprietà solo finché dispongono della forza; i più deboli non hanno che una proprietà precaria, poiché, avendola ottenuta grazie ai più forti, si trovano in loro soggezione. I più deboli non godono di alcuna protezione giuridica per la loro proprietà” (1990: 415). La dipendenza dal principio di forza viene indicata come la principale causa dell’iniqua distribuzione della proprietà e del potere. Il circuito è obbligato e inesorabile: la forza conferisce potere e il potere produce ricchezza, la quale, a sua volta, incrementa sia la forza che il potere. È all’interno di questo circuito che orbita il principio di proprietà, che non sia direttamente legato ai meriti personali, generando ingiustificate ineguaglianze sociali.
Uno dei paesi chiave per l’affermazione della proprietà privata è certamente l’Inghilterra, dove, prima della Gloriosa rivoluzione (1688), il re esercitava un potere pressoché assoluto e, in pratica, si comportava come se il paese fosse di sua proprietà. Era il re che provvedeva a distribuire i feudi ai propri vassalli, ma questi non si occupavano personalmente della terra, né conoscevano le tecniche agricole. Erano i contadini che conoscevano la terra e la coltivavano, ma non avevano ragioni per farla fruttare al massimo, perché la terra era del signore. Quando il re toglieva il feudo ad signore per assegnarlo ad un altro, in realtà, quel passaggio di proprietà non interferiva in alcun modo sulla produttività della terra stessa, né con le entrate fiscali della corona. Questa situazione cominciò a cambiare allorché, con l’espandersi della attività commerciali, un crescente numero di persone si arricchì al punto di poter acquistare le terre che il re andava confiscando alla nobiltà e alla chiesa. Furono questi i primi reali proprietari terrieri. Essi avevano interesse a conoscere le proprie terre e farle fruttare e, in effetti, la produzione agricola aumentò, con vantaggio sia per i proprietari sia per la corona che, oltre ad incassare il denaro della vendita, poteva incrementare le entrate del fisco. A perderci erano semmai i grandi signori, ma contro di loro i parvenu potevano contare sulla sostanziale complicità del re, apparentemente estorta grazie alla pressione che il Parlamento esercitava su di lui. Alla fine, avvenne che la grande nobiltà cominciò a declinare, mentre si rafforzò la piccola nobiltà (gentry) e il parlamento. “Quindi fu solo dopo il crollo del sistema feudale o dopo le grandi riforme agrarie che nacque quel gruppo di piccoli proprietari terrieri i quali, oltre ad essere fautori dell’istituzione della proprietà privata, costrinsero il governo a rispettarla” (Rajan, Zingales 2004: 177).
Il cambiamento radicale di mentalità avvenuto nel Seicento è ben espresso nel pensiero di Bodin e Locke, i quali descrivono la proprietà come un fatto di natura e un diritto inviolabile del cittadino. Questa tesi, che troverà ampia diffusione nei paesi ad economia capitalistica, rappresenta un momento topico nella storia dell’umanità. Da questo momento, infatti, ma solo da questo momento, si moltiplicano nel mondo quanti vedono nella ricchezza un bene assoluto e nel capitalismo liberista il migliore dei sistemi economici possibili. Consentitemi di indugiare sul pensiero di Locke (1632-1704), che ormai è considerato un classico punto di riferimento di tutte le politiche liberali e la cui influenza è ancora viva e pulsante ai giorni nostri.
Tre sono i punti da cui parte Locke: il primo, che Dio ha dato la terra “in comune a tutta l’umanità” (1998: 25); il secondo, che ogni uomo è per natura padrone di se stesso e del proprio lavoro; il terzo, che la terra che l’uomo lavora gli appartiene per natura. “Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani sono propriamente suoi. Qualunque cosa, allora, egli rimuova dallo stato in cui la natura l’ha prodotta e lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà” (1998: 27). Locke rifiuta espressamente il principio secondo il quale la proprietà privata derivi dal consenso degli uomini. Afferma invece che essa è un diritto naturale, ma a tre condizioni. La prima, che ciascuno abbia ciò a cui riesce a badare col proprio personale lavoro: “Quanto terreno un uomo dissoda, semina, bonifica e coltiva, e di quanto può usare il prodotto, tanto è di sua proprietà” (1998: 32). La seconda, che il bene posseduto sia correlato ai bisogni del proprietario: “tutto ciò che va oltre questo è più di quanto gli spetta e appartiene ad altri” (1998: 31). La terza, che ne rimanga abbastanza anche per gli altri: “Nessuno può ritenersi danneggiato dal fatto che un altro beva, sia pure a grandi sorsi, se ha un fiume intero di quella stessa acqua per saziare la sua sete” (1998: 33).
Fin qui la tesi di Locke sembra lucida, equilibrata e parzialmente in linea con quanto sostenuto dagli antichi. Essa però lascia aperta una questione: si possono giustificare quegli immensi imperi finanziari personali che caratterizzano il mondo capitalistico? Se la proprietà è legata esclusivamente al lavoro e ai meriti personali, essa non solo avrebbe poche probabilità di diventare molto grande, ma sarebbe anche costantemente in pericolo a causa delle imponderabili e imprevedibili vicissitudini della vita di ciascuno, e, infine, si esaurirebbe con la fine del protagonista. Al riguardo, la risposta di Locke appare sorprendente. Dopo l’invenzione della moneta, osserva il filosofo, agli uomini è dato di acquistare e possedere molta più terra e produrre molti più beni di quelli che riescono a consumare. Ciò, spiega il Nostro, dev’essere accettato come un fatto positivo, dal momento che, nelle grandi proprietà viene incrementata la produttività, a tal punto che alla collettività nel suo insieme ne deriva comunque un vantaggio (1998: 36, 50). Anche se non appare adeguatamente supportata né da verifiche empiriche, né da argomentazioni teoriche adeguate, e anche se è articolata in modo alquanto oscuro e poco convincente, la risposta di Locke finisce per assurgere a fondamento del capitalismo.
A fianco di Locke si schierano molti altri pensatori liberali (come Hume, Kant ed Hegel), che approvano l’istituto della proprietà privata, sia pure con argomentazioni diverse e pur non ritenendolo un fatto di natura. Diversa è la posizione di Marx, il quale non è contro la proprietà in sé: la proprietà acquistata col lavoro personale va bene, mentre va abolita la proprietà capitalistica, che è frutto del lavoro altrui. Per Marx, lo scopo dello Stato riflette gli interessi della classe dominante, che è quello di tutelare la proprietà, perciò, se si elimina la proprietà, lo Stato perde la sua funzione principale e si estingue; alla fine, il proletariato si approprierà della proprietà borghese e si eleverà a classe dominante, realizzando così la cosiddetta «conquista della democrazia».
Non tutti però la pensano come Locke. Secondo Rousseau, ad esempio, il primo che recintò un terreno reclamandone il possesso dimenticò che i frutti della terra sono di tutti e che la terra non appartiene a nessuno (Discorso sull’origine dell’uguaglianza, II). Per il ginevrino, l’affermazione del principio di proprietà privata segna l’inizio della società civile e dell’ineguaglianza fra gli uomini, ed è da considerare un fatto sostanzialmente negativo, ancorché necessario (Economia politica, III). Allo scopo di minimizzare le inevitabili conseguenze negative della ineguale distribuzione delle ricchezze, Rousseau ammonisce che “nessun cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi” (Contratto sociale II,11). La questione ideologica sulla proprietà privata rimane dunque aperta e continua ad animare il pensiero moderno e contemporaneo.
L’idea che la proprietà sia un fatto di natura continua ad essere respinta da molti pensatori, fra cui Pufendorf (1632-94), Morelly (XVIII secolo), Mably, Diderot (1713-84), Paine (1737-09), Hélvetius (1715-71), che vedono in essa semplicemente una convenzione umana e rimangono ancorati ad una concezione di tipo tradizionale. Ricordo le parole di Morelly: “Togliete di mezzo la proprietà, lo ripeto senza stancarmi, e voi annullerete per sempre mille accidenti che conducono l’uomo a eccessi di disperazione.Io dico che, libero da questa tirannia, è assolutamente impossibile che l’uomo sia trascinato a delitti, che sia ladro, assassino e conquistatore” (1952: 119). Morelly vede nella proprietà una causa di criminalità e un ostacolo alla felicità, e allora immagina una società dove “niente apparterrà singolarmente o in proprietà ad alcuno, eccetto le cose di cui si farà uso effettivo sia per i bisogni e piaceri personali, che per il quotidiano lavoro” (1952: 143). Thomas Paine (1796), “ebbe a sostenere che «è solo il valore delle migliorie apportate, e non la terra in sé, che appartiene al privato. Ogni proprietario di terre coltivate è dunque debitore verso la comunità di una rendita fondiaria (…) per la terra che tiene per sé». Dal fatto, a suo parere incontrovertibile, che la terra allo stato naturale e incolto sia proprietà comune della razza umana, Paine deriva l’obbligo, per chi si appropria di (parte di) questa, di rimborsare gli altri, versando una certa somma a un fondo nazionale” (DEL BÒ 2004: 105).

6.6.7. Età contemporanea
Thomas Jefferson (1743-1826) costituisce un caso a sé, molto interessante. Come Locke, anche Jefferson riconosce tre diritti fondamentali, ma, a differenza di Locke, sostituisce il diritto di proprietà con quello della ricerca della felicità. Jefferson non è contrario alla proprietà, ma solo alla proprietà che si trasmette di generazione in generazione e può dare origine a pericolose concentrazioni di ricchezza, mentre è favorevole alla proprietà della persona individuale. Ecco cosa egli scrive in una lettera a James Madison nel 1789: “Sono partito dal presupposto che «la terra appartenga in usufrutto ai viventi» e che i morti non abbiano né poteri né diritti su di essa. La porzione di essa occupata da un individuo cessa di essere sua quando egli stesso cessa di esistere, e torna alla società” (da BARBATO 1999: 64-5).
Le voci critiche più decise contro la legittimità del principio di proprietà privata si levano dall’area socialista, dove, tanto Babeuf (1760-97) che alcuni suoi allievi, come Blanqui, Cabet e Owen, sostengono che è opportuno abolire la proprietà privata se si vuole realizzare una società migliore. Analoga la posizione di Fourier e Proudhon (1809-65), i quali, più che l’abolizione della proprietà, auspicano una profonda riforma della stessa. Proudhon, a dire il vero, non è contrario alla proprietà in quanto tale, ma solo alla proprietà che assicura un reddito senza lavoro. Il capitalista si appropria di una parte del valore del lavoro di ciascun operaio e, così facendo, si arricchisce senza lavorare. È questo, in definitiva, il senso della frase “la proprietà è un furto”. Per Proudhon, l’unica fonte di reddito è il lavoro e ogni reddito che non derivi dal lavoro è una forma di appropriazione illegittima, un furto, un privilegio di alcuni a danno di altri, reso possibile solo grazie alle leggi e alla forza dello Stato. Nello stesso ambito di pensiero si colloca il comunismo marxista, secondo il quale, benché sia stata ritenuta necessaria per l’esercizio della libertà umana, la proprietà privata ha finito per rappresentare un simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’abolizione della proprietà privata, resa possibile dal comunismo, darà luogo ad un mondo più umano.
Talcott Spencer (1820-1903) vede nel successo economico e nella proprietà i segni tangibili del successo personale conseguito legittimamente in un clima di competizione generale. Anche Hayek (1899-1992) è favorevole alla proprietà privata, nella quale vede il “primo elemento della libertà” (1999: 195). Secondo lo studioso austriaco, l’istituto della proprietà si è evoluto spontaneamente e rappresenta “la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti” (1994: 136). Esso perciò deve essere preservato nell’interesse di tutti, anche di coloro che ne sono privi, “poiché lo sviluppo dell’intero ordine di azioni da cui dipendono le moderne forme di civiltà è stato reso possibile solo grazie all’istituzione della proprietà medesima” (1994: 151). Per Hayek, insomma, come per il pensiero liberale in generale, la proprietà è la condizione necessaria per un sistema economico che si voglia basare su individui liberi, responsabili e razionali, tanto che, se non ci fosse la proprietà, nessuno sarebbe sicuro di nulla e nessuno sarebbe disposto a coltivare la terra nel modo migliore.
A differenza del marxismo tradizionale, che è propenso a scorgere la fonte di tutti i mali nella proprietà privata, Horkheimer e Adorno affermano che non è tanto la proprietà privata a generare l’atteggiamento di dominio, quanto l’atteggiamento di dominio a generare la proprietà privata. Infatti, l’abolizione della proprietà privata non elimina la logica di potenza e le varie forme di dominio, come ha dimostra la realtà storica del comunismo sovietico. Resta il fatto, come sostiene Béteille, che “ricchezza e proprietà sono basi di diseguaglianza in quanto il loro possesso conferisce o status, o potere, o ambedue” (1981: 108). “Nel mondo moderno è evidente che ricchezza e proprietà debbano essere considerate dei valori in sé, indipendentemente da ogni altra considerazione. Di prove siamo circondati: il possesso di terreni, di ville, di gioielli e di ogni altra forma di ricchezza è attivamente perseguito per lo status che tutto ciò conferisce ai loro proprietari. Coloro che accumulano fortune negli affari o nell’industria sono stimati non solo per le qualità che il loro successo si ritiene garantisca ma anche per i loro possessi, ritenuti anch’essi segni cospicui del loro status superiore e valutati tali sia quando sono frutto della propria attività che quando vengono acquisiti ereditariamente” (BÉTEILLE 1981: 108). In definitiva, per Béteille, la proprietà privata è “il più importante segno di diseguaglianza in molte società” (BÉTEILLE 1981: 36).
È sorprendente il fatto che la chiesa, anziché schierasi dalla parte dei pensatori socialisti, che più si avvicinano ai principi cristiani evangelici, rimanga vicina alle posizioni liberali. Leone XIII (Rerum novarum) e Pio XI (Quadragesimo anno), Pio XII (Sertum laetitiae), Giovanni XXIII (Mater et Magistra), Paolo VI (Populorum progressio), infatti, legittimano la proprietà privata indicandola come un diritto di natura sancito dalle leggi umane e divine, offrendo così un valido sostegno allo sviluppo e alla diffusione del capitalismo, anche se ciò è temperato da un generico appello alla solidarietà cristiana e al rispetto della persona.

6.6.8. Oggi
Il diritto di proprietà è riconosciuto dalla nostra Costituzione, che però, come abbiamo già avuto modo di notare, prevede dei limiti, come l’esproprio per causa di pubblica utilità (art. 42) e la prevalenza dell’utilità sociale (art. 43). Lo stesso diritto è ovviamente riconosciuto in tutti i paesi capitalisti, che vedono nella proprietà un vero e proprio diritto sacro e naturale, assoluto e irrinunciabile, necessario e inviolabile, degno di essere tutelato non solo con la forza delle idee, ma anche con quella delle armi, e non è per caso che questi paesi dispongono di possenti apparati militari. In fondo, anche oggi vale lo stesso principio di forza che ha accompagnato da sempre l’uomo lungo l’intero corso della sua storia. Ancora oggi, infatti, la proprietà si conquista e si difende con la forza, anche se il più delle volte si tratta solo di una forza legata a fattori economici, tecnologici, culturali e giuridici. Oggi, è la legge che stabilisce la trasmissibilità ereditaria di un bene e sanziona il principio secondo cui la proprietà non appartiene solo a colui che l’ha prodotta, ma costituisce il patrimonio di un gruppo (una famiglia, un’associazione, un’azienda o un’istituzione) e, in quanto tale, può essere espansa in modo indefinito.
In virtù della sua ereditabilità, la proprietà ha finito per diventare “una forma di autorità creata dallo stato” (LINDBLOM 1979: 28), con conseguenze importanti, che sono davanti ai nostri occhi. Il diritto di proprietà privata patrimoniale fa sì che le aziende più ricche possano agevolmente condizionare la politica dei rispettivi paesi e i paesi più ricchi possano dettare la loro legge nel mondo. Si spiega allora perché, a differenza del passato, le grandi famiglie di oggi non puntano alla conquista della terra per mezzo delle armi e all’asservimento dei vinti, ma alla conquista di nuovi mercati, alla creazione di lobby, trust e imperi economici. Che si disponga del potere militare o del potere economico-legislativo, il risultato è lo stesso. In entrambi i casi, infatti, si genera la solita società duale, dove si può agevolmente distinguere una minoranza di ricchi e privilegiati e una maggioranza di poveri ed emarginati. Questo aspetto rappresenta una costante dall’antichità ad oggi, con la differenza che, mentre in passato si realizzavano regni e imperi duali, oggi si genera un mondo duale, dove pochi gruppi di pochi paesi ricchi dispongono della maggior parte delle risorse del pianeta e comandano sul restante genere umano. Insomma, il mondo non è cambiato, perché si regge ancora su rapporti di forza, che sono alla base della diseguale distribuzione dei beni.

6.7. Conclusione
Dal nostro excursus storico emerge con chiarezza che non c’è alcuna prova certa né che la proprietà patrimoniale sia un diritto di natura, né che possa essere spacciata come una verità universale, assoluta e immutabile. Al contrario, sembra che essa sia solo l’opinione di una parte di uomini. Sappiamo inoltre che la proprietà patrimoniale può generare guerre e orrori di ogni tipo, violenze e ingiustizie, infelicità e dolore, divisioni, contrasti e odi insanabili fra gli uomini. Sappiamo però anche che il possesso favorisce la soddisfazione dei bisogni e la libertà delle persone e costituisce il giusto premio al loro ingegno e al loro merito. Possiamo dire, allora, che forse è arrivato il momento di rivedere e riformare profondamente questo istituto, al fine di renderlo democratico. Forse è arrivata l’ora di rigettare la proprietà e accettare il possesso.

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